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Il contenuto della scheda proviene integralmente dal testo : Storia dell'Ospedale dei Santi Antonio e Biagio di Alessandria di Giovanni Maconi. Vi invito a leggerlo integralmente in quanto ricco di informazioni, anche curiose, oltre agli approfondimenti storici frutto di un'attenta ricerca.
Ringrazio il figlio, Dott. Antonio Maconi, Direttore Dipartimento Attività Integrate Ricerca e Innovazione presso Azienda Ospedaliera SS Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria che, sentito telefonicamente, ha condiviso la mia iniziativa.
Siamo nel 1370 circa
«Nelle vie spopolate dalla peste cresce l’erba, branchi di lupi affamati scendono nel quartiere di Bergoglio e sbranano decine di abitanti. Folle di mendicanti e di contadini privi di ogni forma di assistenza trovano rifugio negli ospedali di Sant’Antonio a Bergoglio, di San Cristoforo a Gamondio e di San Lazzaro a Marengo.
Prima del 1579, l’anno in cui entrò in funzione, dopo essere stato situato in un unico edificio, lo Spedal Grande dei Santi Antonio e Biagio «in Alessandria, parecchi furono gli spedali, così per gli infermi come per i pellegrini».
L’ospedale incorporato nella chiesa aveva dimensioni molto modeste, solitamente risultava costituito di due locali di cui uno poteva contenere quattro letti e l’altro uno solo.
Il più antico di questi ospedali fu quello di Sant’Antonio in Bergoglio, sarebbe stato fondato nel 1295 insieme alla chiesa omonima. Dopo la sua fondazione l’ospedale passò in commenda ai Canonici di Sant’Antonio di Vienne, che si dedicavano particolarmente all’assistenza degli ammalati di «fuoco sacro» o «fuoco di Sant’Antonio ».
Dell’ospedale di San Giovanni in Bergoglio, non si conosce la data di fondazione, che deve essere, però, anteriore al 1350.
Anche dell’ospedale di San Cristoforo in Bergoglio non si conosce la data di fondazione, ma deve essere anteriore al 1350.
Sulla data di fondazione dell’ospedale di San Lazzaro in Marengo, annesso alla chiesa omonima («ecclesia S. Lazari de Marengo»), vale quanto è stato detto per i due ospedali precedenti, che cioè sia anteriore al 1350.
L’ospedale di San Giacomo di Altopascio in Marengo fu fondato da Guglielmo Gambarini e portato a termine nel 1335.
La parte della struttura riservata agli ammalati aveva le caratteristiche di un ospedale inteso nel senso moderno della parola: in esso, infatti, gli ammalati trovavano sempre medici e chirurghi pronti a prestare in ogni momento la loro opera, usando metodi diagnostici e terapeutici per quei tempi veramente all’avanguardia.
Dagli atti di una visita pastorale effettuata nel 1565 dal vescovo di Alessandria Girolamo Gallarati, risulta che questo ospedale «disponeva di otto letti per i pellegrini, ai quali il Rettore altro più non dava che il ricovero, che non doveva protrarsi oltre i tre giorni, ove fossero infermi li provvedeva di un medico, di medicine, di alimenti convenienti e di fuoco».
Nel 1777, non avendo più questo ospedale nessuna importanza come ospedale generale, essendo tale compito assolto dallo «Spedal Grande dei Santi Antonio e Biagio», il vescovo di Alessandria De Rossi chiese ed ottenne dalla famiglia Gambarini di Lucca che venisse trasformato in un «ospedale per pazzerelli» (manicomio); esso, dopo l’approvazione papale di Pio VI avvenuta con la bolla del 2 dicembre 1778, venne aperto al pubblico il 9 novembre 1779.
L’ospedale di San Bartolomeo dei pellegrini, annesso alla chiesa omonima, fu fondato nel 1389 da Fiorino Merlani, che ne assegnò poi il patronato alla famiglia Castellani di Merlani.
Inizialmente era dotato di quattordici posti letto e sembra fosse ben organizzato dal punto di vista sanitario.
L’ospedale della Santissima Trinità veniva anche chiamato dei Santi Giacomo e Filippo degli Spandonari, perché si trovava nelle vicinanze di un’antica chiesa che portava questo nome.
Era di dimensioni molto ridotte, essendo costituito da due sole camere, in una delle quali vi erano quattro letti e nell’altra uno solo: dava soprattutto ricovero ai pellegrini che passavano in città. Nel 1782 passò, con il relativo patrimonio all’ospedale dei pazzerelli.
Il documento più antico riguardante l’ospedale di San Biagio è un atto notarile del 1° settembre 1353, con il quale Giovanni Magolerio vendeva a questo ospedale un prato di 24 staie posto alla periferia di Bergoglio.
Dagli atti delle visite pastorali risulta che l’ospedale di San Biagio «aveva dieci letti che servivano per gli uomini solamente e non per le donne, le quali andavano all’ospedale di San Bartolomeo». Tra il 1565 e il 1567 l’ospedale di San Biagio venne riunito a quello di Sant’Antonio.
Per circa tredici anni, fino al 1579, i due ospedali erano però riuniti solo sotto l’aspetto patrimoniale e amministrativo, mentre continuavano a risiedere nei due edifici originari.
Nel 1576, quando gli edifici dei due ospedali erano ancora separati, nell’ospedale di San Biagio «venne fabbricata la parte dell’ospedale ad uso delle femmine sul sedime di alcune case contigue all’ospedale . Venne abbattuto nel 1579.
Il documento più antico riguardante l’ospedale di Sant’Antonio è un testamento del 30 agosto 1524, con il quale Giacomo Claro lo rendeva erede di tutti i suoi beni. Secondo alcuni questo ospedale sarebbe sorto prima, perché era già ricordato in un atto del 23 marzo 1493.
Per quanto riguarda la situazione ospedaliera verso la fine del 1500 e nei primi decenni del 1600 la maggior parte degli antichi ospedali alessandrini cessò l’attività per mancanza di fondi o per cattiva amministrazione oppure per vetustà dei locali. Non estranee alla chiusura di questi ospedali furono anche le mutate condizioni morali dei tempi. Infatti «quando la corruzione intaccò anche le cose più sante, come i pellegrinaggi individuali, lasciando le porte aperte al vagabondaggio, si fece un unico fascio dei pellegrini veri e di quelli falsi. Sulla consuetudine di pellegrinare a piedi per penitenza o per fervore di pietà cadde allora il discredito della popolazione e molti di questi ospedali, che ospitavano e ristoravano anche i pellegrini, decaddero e scomparvero ed in alcuni casi intervennero anche le Autorità per farli chiudere o per trasformarne lo scopo».
Fra i pochi ospedali che allora rimasero in attività quello di Sant’Antonio era senz’altro il più importante, sia per la disponibilità di posti letto sia per le cure che si prestavano agli ammalati. Infatti nel 1565, l’anno della sua unione con l’ospedale di San Biagio, in esso «si trovavano 12 letti sia per uomini sia per donne» che però nel giro di pochi anni aumentarono perciò si decise di ampliarlo.
Nel 1566 incominciò la sua ristrutturazione, come ce ne assicura anche un breve di Pio V del marzo dello stesso anno, con il quale si concedeva l’indulgenza a favore dei fedeli che facessero offerte per finanziare i lavori, che furono portati a termine nel 1570.
Nel 1579, quando venne abbattuto l’ospedale di San Biagio, quello di Sant’Antonio diventò l’unico Ospedale dei Santi Antonio e Biagio e venne denominato Spedal Grande («ospitale magno») o, più raramente, «Spedale maggiore» («hospitalis majoris») . Pur essendo originato dall’unione patrimoniale di tre ospedali, il nuovo ospedale mantenne come patrono solo quelli di due, cioè Sant’Antonio e San Biagio.
Quando venne terminato, cioè verso il primo decennio del 1600, lo Spedal Grande non aveva le caratteristiche architettoniche dei grandi ospedali dell’epoca, vale a dire o con la pianta a crociera o di tipo massiccio, perché originò dall’ampliamento e dalla ristrutturazione dell’antico e piccolo ospedale di Sant’Antonio che, come tutti gli altri ospedali del suo tipo, aveva le caratteristiche di un normale edificio di abitazione, al quale in seguito vennero anche incorporate delle case limitrofe.
Poiché non aveva pregi artistici, non fu conservato, come invece avvenne per ospedali di altre città, e fino dalla prima metà del 1800, pochi decenni dopo la sua chiusura, l’area sulla quale sorgeva venne divisa in numerose proprietà civili, che divennero sede di edifici ad uso di abitazione, di laboratori e di botteghe ricavate dalla ristrutturazione degli stabili che lo costituivano.
In campo sanitario, nessun ricovero in ospedale di ammalati poteva essere effettuato «senza licenza del priore con scrittura indirizzata al maggiordomo».
Dopo il ricovero, però, era il medico che doveva decidere se trattenerlo o meno in ospedale, dopo aver accertato quanto stabilito dal regolamento sulla curabilità della sua malattia.
Il priore e il deputato di turno settimanale visitavano giornalmente «li poveri infermi e intenderà da essi come siano trattati o come siano provvisti di cose che li bisognano».
Il personale con mansioni direttive dello Spedal Grande era costituito dal maggiordomo e dalla governatrice. Nel primo regolamento dello Spedal grande, compilato nel 1589, nel capitolo dedicato all’”Ufficio del maiordomo» si legge: «è molto necessario che in ogni casa vi sia chi habbia cura principale di essa, altrimenti ogni cosa in breve tempo si risolverebbe in disordine e confusione, perciò conviene nella istessa casa dell’Hospitale vi sia il maiordomo (il quale) con la continua assistenza et prudenza governa il tutto”». Dopo il priore e i deputati, «il maiordomo haurà la suprema autorità nella casa dell’Hospitale» e in assenza del priore e dei deputati «a lui porteranno ubidienza tutti gli altri che risiederanno nella casa». Provedendo che in Hospitale non si gioca, non si bestemia,non si dicano parole disoneste né si facciano cose che non convenga a luoco pio, provedendo ai disordini, se ne occorresse» perché se allora la città era un luogo pericoloso, nemmeno l’ospedale era del tutto sicuro, infatti non casualmente il maggiordomo teneva un archibugio nella propria stanza, mentre la Congregazione riteneva di mettere per iscritto nel regolamento che gli infermieri «anderanno per detto Hospitale e Crociere (corsie) senz’arme e penne come si ricerca in un simile divoto luoco».
Il personale amministrativo dell’ospedale era costituito «dal fattore generale, dal ragionato, dal thesoriero (o sij cassero), dal cancelliere, dall’avvocato, dal procuratore, dal notaro e dallo scrivano».
Il personale sanitario era composto da «un medico, un cirugico (o cirogico) e uno spetiaro». Il medico e il chirurgo «visitavano gl’infermi due volte il giorno a hora competente, ordinandoli in scritto quello che sarà necessario per la loro cura e anco per il vivere (dieta)». Alla visita erano presenti, oltre agli infermieri «che terranno conto di quanto ordinato alli infermi», anche il farmacista («spetiaro»), che «scriverà sopra un libro tutte le ricette ch’ordinerà il medico per servitio delli infermi».
«Il cirugico (chirurgo) sarà obbligato, sera e mattina, attendere alla cura dè poveri feriti ò che haveranno altro male e anche fare l’ufficio del Barbiero per quanto spetta al servitio dè medicamenti, come di salassi, ventose, serviciali (clisteri) e altri simili bisogni.
Dello «Spetiaro» (farmacista) si parla solo nel secondo regolamento ospedaliero del 1616 , perché la «Spetiaria» (farmacia) dell’ospedale è sorta dopo la compilazione del primo regolamento ospedaliero del 1589.
Per quanto riguarda il personale ausiliario dell’ospedale, dai regolamenti del 1589 e del 1616 risulta che era composto dagli infermieri, dalle infermiere e dai servitori. Nel regolamento ospedaliero del 1589, nel capitolo in cui si parla «dell’ufficio dell’infermero et infermiera », si legge che nel reparto degli uomini «haura l’infermero sotto di se due servitori mentre nel luoco (reparto) delle donne vi sarà una infermiera con un’altra donna le quali servaranno il medesimo ordine che si è detto dell’infermero e servitori».
Gli infermieri si alzavano al mattino in tempo «per distribuire le medicine, siroppi e altri medicamenti avvertendo a tener memoria del medicamento e vitto ordinato acciocché non seguisse errore». Quindi riassettavano giornalmente i letti degli infermi, spazzavano le immondizie per tenere «polito e ben netto il luogo», raccoglievano le urine e facevano «tutti quelli servitij che bisogneranno agli infermi con diligenza, carità, amorevolezza e patienza. Sopra il tutto attenderanno con diligenza che resti il luogo con maggior politezza che sij possibile, che non gli restino odori tristi e aere corrotto, sia per recreazione d’essi infermi come perché possino con miglior animo essere visitati da cui tocca ò da altre persone caritative ». Seguivano poi la visita del medico, «notando diligentemente che ordinerà a ciascaduno come di medicine, salassi, ventose, servitiali, fregationi e altri simili bisogni e l’hora che darà il medico per cibarli e la qualità delle vivande che a ciascuno infermo saranno ordinate». Erano sempre presenti in reparto sia di giorno che di notte. «Dormiranno le notte in essi luoghi stando attenti ed avvertiti alli bisogni delli infermi, levandosi qualche volta per vedergli e intendere se gli bisogna alcun cosa, tenendo di continuo una lampada accesa per servitio dei poveri infermi». Dovevano avvisare di giorno e di notte il cappellano «occorrendo dubbiuso mancamento in alcun infermo». Erano anche tenuti a «sepelire quelli che moriranno nell’Hospitale». Non dovevano usare con gli infermi «parole aspre e dure ma si mostreranno verso tutti affabili, benigni, pietosi e caritativi, essendo impietà giongere afflittione a gl’afflitti». Fatta eccezione per le sepolture che competevano solo agli infermieri, tutte queste norme valevano anche per le infermiere addette al reparto donne. Le infermiere «dovevano stare solo nelle crociere (corsie) delle donne e non praticare in quelle delli huomini sotto al pena della perdita del salario».
Da questi due regolamenti ospedalieri risulta, che lo Spedal Grande nel 1589 (anno della compilazione del primo regolamento) aveva complessivamente 19 dipendenti, così ripartiti: 1 notaro, 1 avocato, 1 procuratore, 1 thesoriero, 1 collettore delle elemosine, 1 maiordomo, 1 fattore, 1 coco, 2 lavandiere, 1 medico, 1 cirogico, 1 infermero, 1 infermera, 4 serivtori, 1 sacerdote, mentre nel 1616 (anno di compilazione del secondo regolamento) i dipendenti erano saliti a 24 circa, così distribuiti: 1 avocato, 1 procuratore, 1 notaro, 1 cameliere, 1 scrivano, 1 maggiordomo, 1 sacerdote, 1 ragionato, 1 fattore, 1 speziale, 1 governatrice, 1 medico, 1 cirugico, 1 thesoriero, 1 coco, 2 lavandiere, 2 infermere, forse 4 infermeri .
A fronte di questo numero di dipendenti, il numero dei posti letto dell’ospedale era il seguente: nel 1565, a meno di un anno dall’unificazione, l’ospedale di San Biagio e quello di Sant’Antonio disponevano complessivamente di 23 posti letto (12 per gli uomini e per le donne quello di Sant’Antonio; 11 solo per gli uomini quello di San Biagio.
Nel 1624 lo Spedal grande disponeva di 42 posti letto (26 per gli uomini e 16 per le donne) che alla fine del 1700, pochi anni prima della cessazione della sua attività, salirono a 59 (32 per gli uomini, 25 per le donne e 2 per gli «ammalati incurabili»).
Una volta ricoverato, l’ammalato veniva preso in consegna dall’»infermero», che provvedeva a pulirlo, se ne aveva bisogno, poi si faceva consegnare gli indumenti che «haverà cura di riporre nel luogo deputato, dove saranno descritti in un apposito libro e poi lavati per poterli restituire puliti a luogo e tempo»; quindi gli faceva indossare una camicia pulita, lo accompagnava nella corsia e lo metteva a letto. Avvisava infine il cappellano «accioché senta la confessione in tempo debito».
I letti dell’ospedale erano provvisti di pagliericci, materassi, cuscini, lenzuola e coperte. Ogni ricoverato disponeva di un proprio letto, contrariamente a quanto avveniva in ospedali di altre città sia italiane che straniere, in cui per la persistente carenza di letti era invalsa l’usanza di mettere nello stesso letto più malati.
Tutti i luoghi dell’ospedale, ma in particolar modo i reparti di degenza, erano tenuti puliti. Ogni giorno venivano riassettati i letti e, all’occorrenza, cambiate le lenzuola e le camicie ai ricoverati.
Gli infermieri e le infermiere non abbandonavano né di giorno né di notte le corsie. Durante il giorno controllavano «accioché il tutto fosse puntualmente eseguito» sia per quanto riguarda la somministrazione delle medicine che dei pasti, generalmente consistenti in «minestra, pane, carne, vino, aqua cotta i altri simili cose» inoltre «ponevano mente agli accidenti che venivano agli infermi per riferirli al medico o al chirurgo».
«Partendosi l’infermo dall’Hospitale dopo avere recuperata la sanità», gli venivano «restituiti li suoi panni risanati». In caso di decesso veniva seppellito dall’infermiere nel sepolcro dell’ospedale.
«Li panni et altre cose degl’infermi» che morivano nell’ospedale si restituivano «alli Heredi legitimi dil morto», ma «non comparendo alcuno in termine di tre mesi, che possi esser herede legittimo, dette robbe» divenivano di proprietà dell’ospedale e vendute dal maggiordomo che «portava li denari che si cavavano in Thesoreria».
Dopo la sconfitta degli spagnoli, in base ai patti stipulati con gli austriaci nel 1703 e ribaditi dalla pace di Utrecht del 1713, Vittorio Amedeo» ottenne nel 1707 l’annessione di Alessandria, e nel 1713 la sua definitiva assegnazione insieme al regno di Sicilia con il titolo regio, che successivamente dovette cedere in cambio del meno ricco regno di Sardegna. Alessandria ed il suo territorio continuarono ad essere, anche sotto il regno sabaudo, una terra di frontiera, sempre con un ruolo strategico primario quale baluardo orientale del Piemonte.
L’assolutismo monarchico del re Vittorio Amedeo II subentrò al sistema di governo spagnolo, che in quasi due secoli dominio aveva lasciato agli alessandrini, pur avendoli oberati di tasse, una discreta parte dei loro antichi privilegi.
Nacquero così nuovi organismi amministrativi, tutori periferici dell’autorità del sovrano, i quali, vincendo la tenace resistenza della nobiltà e del clero, accentrarono nella propria sfera tutte le attività, comprese le opere caritative, e le sottoposero ad un rigido controllo, al quale dovette sottostare anche lo Spedal Grande, che fino a quel momento era stato esonerato dall’obbligo di presentare i rendiconti finanziari ai magistrati competenti. Secondo questo nuovo indirizzo, nel 1717 venne istituita con Regio Editto la Congregazione generale di Carità, che doveva amministrare tutte le Opere pie esistenti nel regno, compresi gli ospedali, e controllare la mendicità con la creazione di una rete di ospizi generali di Carità.
Tre anni dopo, nel 1782, si iniziava presso il convento di San Bernardino la costruzione dell’attuale Ospedale dei Santi Antonio e Biagio.
Con l’incorporazione del Piemonte alla Francia, decretata l’11 settembre 1802, l’organizzazione assistenziale (assoggettata alle leggi francesi) venne posta completamente sotto il controllo dello Stato e con il decreto del 28 marzo 1805 i poteri di controllo sulle amministrazioni delle istituzioni assistenziali furono attribuiti al Ministero dell’Interno, che li esercitava attraverso i Prefetti, i quali controllavano le Commissioni amministrative degli ospizi, sorti dopo la soppressione della Congregazione di Carità, in funzione durante il regno sabaudo.
Secondo le disposizioni contenute in tale decreto, coloro che potevano beneficiare dell’assistenza pubblica vennero distribuiti in tre classi: quelli in stato di povertà, quelli in stato di malattia e quelli in stato d’abbandono. La prima classe comprendeva coloro che vivevano solitamente del lavoro e che se ne trovavano privi momentaneamente e per cause indipendenti dalle loro volontà. Costoro venivano soccorsi con distribuzioni di beni di prima necessità, pane, minestra, indumenti e combustibile e solo raramente con denaro. La seconda classe comprendeva gli ammalati, che dovevano essere ricoverati in ospedale per ricevere le cure necessarie.
Era, però, possibile anche l’assistenza a domicilio, con la fornitura di medicinali e assistenza sanitaria. Alla terza classe appartenevano i vecchi, gli incurabili (che per il tipo di malattia da cui erano affetti o per il decorso cronico di questa non potevano essere accolti in ospedale) e i bambini abbandonati.
Ai vecchi e agli incurabili si doveva solo trovare un ricovero in qualche Ospizio; i bambini abbandonati, invece, dovevano essere allevati, educati e istruiti nel lavoro.
Durante il periodo napoleonico le istituzioni assistenziali finalizzate al ricovero presenti in Alessandria erano l’Ospedale dei Santi Antonio e Biagio, l’ospedale dei Pazzerelli di san Giacomo, l’Ospizio di San Giuseppe e l’Ospizio di Santa Marta. L’ospedale dei Pazzerelli (o Ospizio dei Pazzi di San Giacomo), rimase anche durante l’amministrazione napoleonica in posizione subordinata rispetto agli altri ospizi, sia per reddito sia per il numero ridotto dei ricoverati.
L’Ospizio di San Giuseppe, adibito nella prima metà del 1700 ad Ospizio generale di Carità dal re Vittorio Amedeo II e poi trasformato in un ricovero di fanciulle indigenti, mantenne questa sua destinazione anche nel periodo napoleonico.
Nel 1805 le orfane dell’Ospizio di Santa Marta furono trasferite nell’Ospizio di San Giuseppe. Questo trasferimento fu disposto dalle Autorità per liberare l’orfanotrofio di Santa Marta ed adibirlo a nuovo Ospizio degli esposti e dei fanciulli orfani abbandonati, che venne aperto nel gennaio 1807, appena terminate le operazioni per adattare i locali alla nuova destinazione.
Nel periodo napoleonico l’assistenza subì dunque delle importanti modificazioni, che portarono al superamento degli atteggiamenti tradizionali e delle secolari concezioni nel modo di porsi della società nei confronti dei poveri.
Dopo la caduta di Napoleone e la restaurazione della monarchia sabauda, avvenuta nel maggio 1814, il re Vittorio Emanuele I, che era stato in esilio per 16 anni, ritornò in possesso dei propri territori e ripristinò su di essi il suo potere assoluto, senza, però, portare innovazioni degne di rilievo in nessun settore, salvo il rinnovamento delle cariche pubbliche e di alcune istituzioni, limitandosi in alcuni casi a cambiare solo la denominazione, come avvenne per la Commissione amministrativa degli Ospizi, alla quale venne ridato il nome di Congregazione di Carità che aveva prima della dominazione napoleonica.
Nel 1820 con patente reale del 20 luglio venne ufficialmente istituito nell’Ospedale dei Santi Antonio e Biagio il Pio ricovero degli orfani (orfanotrofio), che però era già in funzione in questo ospedale dal 1814 quando vi furono trasferiti gli orfani ricoverati nell’Ospizio di Santa Marta.
Durante il regno di Carlo Felice (1821-
Durante il regno di Carlo Alberto (1831-
Nel campo dell’assistenza e della sanità tutto procedeva secondo la tradizione, senza discostarsi dalle direttive tracciate immediatamente dopo la caduta di Napoleone dal restaurato regno sabaudo. Le richieste di soccorso assistenziale, che erano notevolmente aumentate perché la popolazione aveva subito un incremento di oltre il 60% venivano soddisfatte con procedure legate alle strategie di intervento settecentesche, poiché quasi tutte le Opere pie assistenziali allora esistenti continuavano ad essere gestite con le stesse modalità dei secoli precedenti, secondo le volontà espresse dai benefattori nei loro testamenti, e questo creava notevoli disagi in un settore sempre più importante socialmente.
Nel periodo fra le due guerre mondiali vennero apportati notevoli ed importanti miglioramenti all’interno dell’ospedale, sia attraverso le generose elargizioni dei benefattori sia attraverso le risorse ordinarie di bilancio sia, in minima quantità, attraverso capitali ricavati dalla vendita di fondi rustici, che facevano parte del patrimonio dell’ospedale.
Dopo la seconda guerra mondiale, a causa dello stato di decadimento in cui si trovava l’ospedale, il problema più importante da affrontare e da risolvere fu la scelta se procedere alla sua ristrutturazione e completamento oppure se provvedere al suo trasferimento, per costruirlo interamente nuovo si optò per la ristrutturazione.
Il personale ausiliario in servizio nelle sale di degenza era composto dagli infermieri, dalle infermiere e dal barbiere. Gli infermieri e le infermiere erano assunti dalla superiora delle suore, «previo consenso del presidente, ed erano dalla medesima scelti su quegli iscritti nell’apposito elenco tenuto dalla Congregazione». Generalmente vi erano tre infermieri per ognuna delle due infermerie degli uomini e due infermiere per quelle delle donne. Il loro numero poteva, però, essere aumentato o diminuito dalla Congregazione a seconda dei bisogni del servizio. Era vietato agli infermieri entrare nella sala delle donne ed alle infermiere in quella degli uomini, a meno che non vi fosse stata una richiesta da parte dei sanitari o delle suore per qualche momentaneo lavoro. All’interno dell’ospedale sia gli infermieri che le infermiere dovevano portare «il vestiario stabilito dalla Congregazione e non potevano portarlo fuori dal pio stabilimento.
Fra gli infermieri della sala di chirurgia uno era designato dal presidente a svolgere le funzioni di capo infermiere. Egli doveva «tener pronto i cerotti, gli unguenti, le filaccie, le compresse e le bende necessarie pel servizio giornaliero di tutte le infermerie. Doveva inoltre seguire il primario chirurgo nella visita del mattino e l’assistente in quella della sera, portando un tavolozzo, su cui erano distesi tutti gli oggetti necessari alla medicazione, ed un cesto in cui depositare le compresse, bende e quanto altro veniva tolto dall’infermo nel rinnovare le medicazioni». Tutti gli infermieri indistintamente insieme alla suora dovevano essere presenti nelle rispettive sale durante la visita del mattino effettuata dai primari medico e chirurgo. Finita la visita, gli infermieri e le infermiere della sala chirurgica dovevano assistere alle operazioni di bassa chirurgia.
Due infermieri ed una infermiera per turno, e ciascuno nella propria sala, vegliavano tutta la notte, «accostandosi frequentemente agli ammalati più gravi e accorrendo ai letti degli ammalati dai quali erano stati chiamati e porgendo loro le bevande e gli altri soccorsi di cui abbisognavano». La veglia di ciascun infermiere incominciava alle ore 23 e prima di iniziarla era lasciato libero per riposare dalle ore 18 all’inizio della veglia stessa. Quando «un infermo si rendeva estinto gli dovevano coprire il viso con il lenzuolo e chiudere le tende poste attorno a ciascun letto».
Era rigorosamente proibito agli infermieri «di prestare l’opera loro sotto qualunque pretesto fuori dell’ospedale; di ricercare mance in denaro o in effetti dai ricoverati, di appropriarsi parte delle vivande di spettanza dei ricoverati. I lasciti di riconoscenza degli infermi a favore degli infermieri venivano loro pagati dall’economo, sempre risultando la libera attestazione degli infermi».
Agli infermieri era concesso di assentarsi alternativamente dal lavoro due ore al giorno, stabilite dalla superiora delle suore. Per uscire dall’ospedale dovevano servirsi solo della porta sorvegliata dal portinaio, al quale dovevano «presentare la tessera stabilita». Durante il passaggio dalla portineria «potevano essere sottoposti a visita e riconosciuto che asportassero vivande od oggetti propri dei ricoverati o dell’ospedale, dopo essere stati intesi nelle loro difese, se ritenuti colpevoli, venivano sottoposti alle pene stabilite dal regolamento».
Solo nel 1916 venne aperta una «sala celtica», che nel 1933 venne unita alla «sezione dermosifilopatica», aperta in quello stesso anno.
Nel regolamento dell’ospedale del 1873 venne incluso anche il regolamento del sifilocomio, allora ancora funzionante nell’ospedale. Secondo tale regolamento le donne, quasi tutte prostitute, che si presentavano per essere ricoverate nel «sifilicomio», dovevano essere munite di un attestato del medico comprovante la malattia e di una «bulletta» (certificato) dell’Ufficio Sanitario del Comune, «in cui erano indicate le loro generalità».
Il personale sanitario addetto al «sifilocomio», era composto dal chirurgo primario, dal chirurgo permanente, dal chirurgo assistente (perché allora la sifilide era di competenza dei chirurghi) nonché dal flebotomo e dallo speziale. Il chirurgo primario aveva la direzione del servizio sanitario e, in caso di assenza o di impedimento, era sostituito dal chirurgo permanente. Egli aveva l’obbligo di effettuare «una visita al giorno nel sifilocomio nell’ora stabilita dalla Congregazione».
Il chirurgo assistente doveva essere presente alla visita del chirurgo primario e inoltre «doveva tutte le sere fare una visita nel sifilocomio per provvedere ai casi imprevisti e dare i primi soccorsi alle ricoverate della giornata». Il flebotomo «eseguiva tutte le operazioni di bassa chirurgia e prestava l’opera sua per le medicazioni». Lo speziale (farmacista) «doveva inviare nel più breve tempo possibile, avuto anche riguardo al tempo per la confezione, i medicinali ordinati dai sanitari».
Facevano parte del personale addetto al sifilocomio anche una suora, un’infermiera, un portinaio e una guardia di pubblica sicurezza. La suora «doveva assistere alla distribuzione del vitto e dei medicinali; procurare che fossero eseguite le regole di pulizia; mantenere la disciplina; sorvegliare se l’infermiera e il portinaio eseguivano quanto loro spettava di fare». L’infermiera «eseguiva e faceva eseguire in sua presenza le prescrizioni dei medici». Essa era inoltre responsabile dell’ordine della sala e riferiva alla suora e al chirurgo primario le infrazioni al regolamento compiute dalle ricoverate.
Il portinaio non lasciava entrare né uscire alcuno dal sifilocomio, se non munito di permesso del presidente o del chirurgo primario. Ogni ricoverata, al suo giungere nel sifilocomio, era informata dalla suora delle regole di disciplina a cui era soggetta. «Al mattino, appena alzata, ciascuna ricoverata doveva rifare il letto che, in caso di indisponibilità, veniva rifatto dall’infermiera o dalla ricoverata di turno poiché giornalmente per turno una ricoverata era destinata per cadauna sala a fare le pulizie. Doveva poi recarsi alla visita che, per la sua riservatezza (riguardando parti intime del corpo), veniva effettuata separatamente nel gabinetto del chirurgo primario». Durante lo spostamento dalla sala dove era ricoverata al gabinetto del chirurgo primario «era accompagnata dal portinaio e dalla guardia di pubblica sicurezza, che attendevano dopo l’entrata nel gabinetto di visita; appena la malata era uscita, dovevano farla rientrare nella propria sala», ciò, evidentemente, per evitare che fuggisse. Dopo la visita, le ricoverate si trattenevano nella propria sala a lavorare per sé e per il sifilocomio, essendo obbligate a preparare le «filacce» (fili che si ricavavano dallo sfilacciamento di panni rotti e che servivano per ricoprire le ferite e le piaghe). Nel sifilocomio le ricoverate erano sottoposte ad una severa disciplina e dovevano osservare un rigoroso silenzio nel tempo delle visite, della distribuzione del vitto e dei medicinali, nella notte ed in tempo di funzioni religiose; in occasione di qualche visita, quelle non allettate per malattia dovevano mettersi in piedi al capezzale del loro letto; «non dovevano cantare, né commettere atti osceni, né dire parole indecenti, né incitare le compagne a perdurare nella mala vita»; non potevano avere colloqui con altre persone «fuori che coi genitori, mariti, fratelli e affini di ugual grado o coloro che giustificavano affare urgente, però sempre con autorizzazione del presidente o del chirurgo primario». In caso di inadempienze venivano punite con pene che andavano «dalla privazione della pietanza e del vino alla reclusione nella camera di disciplina a pane ed acqua». Quando una ricoverata era guarita, il chirurgo primario «sottoscriveva una dichiarazione, che veniva trasmessa alla Congregazione nonché al Delegato sanitario di pubblica sicurezza ». In caso di morte «la salma veniva immediatamente trasportata in una camera separata, quindi le veniva data sepoltura secondo le norme prefisse dalla Congregazione di Carità».
Con il regolamento del 1917 venne anche stabilito che al letto di ogni infermo fosse appesa «una tabelletta» (in cui veniva segnato il giorno di ingresso, la dieta e la termometria) e «un bollettino», recante le generalità del malato, la nota degli effetti personali da lui depositati al momento del ricovero e la storia clinica fino all’epoca della dimissione o della morte.
Alla dimissione o alla morte del ricoverato il bollettino veniva firmato e conservato dal primario o dal dirigente e serviva «per la formazione delle relazioni mediche annuali sull’andamento del servizio da presentare al direttore sanitario ». Il primario o il dirigente, «salvo casi di dichiarata urgenza, prima di eseguire un’operazione chirurgica, doveva provvedere a che il paziente, se maggiorenne e capace, dichiarasse di assentire. Se il paziente era minorenne, interdetto o inabilitato, il primario o il dirigente doveva invitare il padre, la madre o il tutore a rilasciare il consenso».
In questo periodo (seconda metà del 1800) era causa di aggravamento delle malattie, soprattutto, per gli abitanti dei sobborghi locali, la mancanza di adeguati mezzi di trasporto e di piccoli ospedali periferici («ricoveri di salute»). Infatti, mentre in città generalmente gli ammalati venivano trasportati in ospedale dai facchini dell’ospedale stesso con i «letti portatili», quelli dei sobborghi venivano trasportati su carri scoperti, «nei quali un po’ di paglia teneva il posto dei materassi, ed una coperta (quando c’era) ostentava di coprire il povero infermo il quale, se affetto da affezioni acute dell’apparato respiratorio durante il tragitto di circa due ore o si aggravava o peggiorava le sue condizioni ». A causa della mancanza di «ricoveri di salute» nei principali sobborghi, i poveri ammalati, «privi di ogni cura, lottavano lungamente nelle loro case con il male e solo dopo aver esaurito i loro tenuissimi mezzi chiedevano l’estremo soccorso in ospedale, il più delle volte inefficace, pagando così con la loro morte la mancanza di provvidenze nel sobborgo dove abitavano».
La storia dell’Ospedale dei Santi Antonio e Biagio descritta viene fatta terminare all’anno 1968 perché a quell’anno risalgono gli ultimi documenti dell’archivio storico. Infatti i documenti degli anni successivi,che erano situati in altre sedi, sono stati quasi tutti distrutti dall’alluvione del 1994.