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Il contenuto della scheda deriva integralmente dal testo: Santa Croce un ospedale nella storia di Mar-
Il pregevole volume ricco di foto ed iconografie storiche mi è stato donato dallo stesso BCC di Fano che ringrazio mentre, per la condivisione dei contenuti, mi sono interfacciato con lo stesso autore messomi in contatto dalla Banca stessa.
Mi sono limitato a riportare solo alcune parti del lavoro complessivo che, nelle sue 250 pagine riporta anche la storia delle confraternite, dell’arte medica, della Farmacia ed, oltre al primo regolamento interno del nuovo ospedale, anche un accenno alla istituzione degli Ospedali Riuniti Marche Nord. Ricca la bibliografia di riferimento.
Nei locali dell'Archivio di Stato fanese giacciono numerosi fascicoli, relativi al Santa Croce, non ancora del tutto esplorati.
Alcuni documenti, sempre sullo stesso tema, sono racchiusi in una cartella dell'Archivio Storico Diocesano. Altri ancora -
Da atti notarili o consiliari vengono alla luce personaggi che, meglio e più di altri, hanno saputo interpretare i segni dei tempi: Donna Gaudiana con l'istituzione della più grande opera di carità; i vescovi Gheri e Beni con le loro incisive riforme sanitarie; il dottor Malagodi con i suoi interventi chirurgici innovativi; l'ingegner Selvelli con il progetto del nuovo ospedale.
Hanno così inizio istituzioni di beneficenza, come ospizi, asili e conservatori, rimaste operanti fino al secolo scorso e poi confluite, nell'agosto del 1862, nella Congregazione di Carità del Comune di Fano.
Pier Maria Amiani nelle sue Memorie istoriche della città di Fano, pubblicate nella metà del Settecen-
Tra di essi compare la schola degli Scoriggiati, così chiamata per il colore scoriggio o scuretto della cappa, a significare la modestia e la mitezza di cuore di chi pratica la carità.
E’ proprio da questa istituzione, e la sua Confraternita, che prende origine il S. Croce.
Si tratta di una opera caritativa che provvede anche alla cura dei poveri e infermi nell’Ospedale di San Giuliano, incombenza comunque svolta anche da altre istituzioni di carità.
Al sodalizio degli Scoriggiati, dei suoi ottanta fiorini, donna Margherita destina ben poco, soltanto dieci soldi, mentre per l’ospedale della Casa di Dio il doppio.
Le origini del Santa Croce risalgono dunque ad una associazione religioso-
Si tratta di un ospizio sorto accanto a Santa Maria della Concezione, chiesa concessa ai francescani intorno alla metà del Duecento quando abbandonarono il primitivo locus di S. Maria del Ponte.
Per quell'ospedale Donna Gaudiana aveva disposto quattro posti letto riservati ai pellegrini in cam-
L'ospitalità poteva estendersi anche a mercanti e a persone decisamente povere o ammalate.
E’ proprio da questo piccolo luogo di carità che germoglia il primitivo nucleo del Santa Croce.
Solo nella seconda metà del Quattrocento, dopo aver trovato nuova sede accanto alla chiesa di Santa Croce, prende l'attuale nome.
Le prime notizie documentate sul Santa Croce risalgono al 1544, anno in cui si da inizio al registro, Entrata-
La sua lettura ci rivela la gestione quotidiana della Confraternita Santa Croce, comprese le cariche da-
La presiede un priore, quasi sempre nobile, eletto, insieme ad un sottopriore, per la durata di un anno, col sistema della estrazione del bussolo.
C'è un incaricato per la carità con il compito di cercare fondi per il sostentamento.
Pratica che avviene sotto il loggiato, all'ingresso della torre, dove viene collocato un banchetto con l'apposita cassa per le elemosine e la distribuzione del pane.
Due governatori dei poveri hanno il compito di controllare su eventuali abusi, e due visitatori di vigilare sui ricoverati e sulle condizioni igienico-
C'è il depositario del grano, principale fonte di guadagno, utilizzato anche per il pagamento del per-
Il depositario dei denarí, chiusi a chiave in una cassa all'interno della sala del capitolo, è la persona che gode la massima fiducia da parte di tutti, proprio per il suo delicato compito.
Tutti i confrati che hanno queste cariche debbono essere persone di comprovata onestà e di massima trasparenza. Nessuno di essi percepisce ricompensa. Il sodalizio, come ente ecclesiastico, gode dei soliti benefici fiscali.
Al vescovo spetta la sorveglianza dei beni, che non possono essere né venduti né permutati senza il suo consenso. L'ordinario diocesano partecipa alle congregazioni generali, in media tre all'anno, e spesso, oltre che essere un benefattore dell'opera pia, interviene anche sulla gestione dell'ospedale. Alessandro Castracane esorta a rimettere in uso li sciroppi, le pillole e i distillati. Nell'occasione fa alcuni richiami: invita tutti al risparmio, a dimettere i degenti dopo tre giorni di ricovero, a non concedere vino ai febbricitanti.
Tra le voci di uscita figurano le spese ordinarie per pagare i salariati fissi: i due cappellani, l'economo, il fattore, il cancelliere, l'ospedaliere.
Tra di essi non figura il medico, in quanto a carico della comunità.
Dal registro risulta pagato soltanto il cerusico, medico pratico adibito a piccoli interventi di chirurgia.
Tra le Spese ordinarie vengono annotate quelle per il fornaio, il macellaio, lo speziale.
Nell'ottobre del 1693 viene presa la decisione di rinnovare li matarazzi per colcarli e di acquistare 24 coperte di Pergola.
Nel registro compare regolarmente ogni anno la spesa dei ceri utilizzati nelle processioni.
Spese rilevanti, annotate sotto la voce per fabrica, iniziano a comparire nell'anno 1567.
È la data in cui si dà inizio alla sistemazione del vecchio complesso ospedaliero medioevale, non più idoneo alle nuove esigenze. Si tratta di pagamenti per materiale edilizio: pietre, mattoni, gesso ferro; pagamenti per mano d'opera di muratori, carrettieri, stagnini, imbianchini, falegnami. Gradualmente si giunge ad intervenire in ogni parte del complesso, compresa la sacrestia, la sala capitolare e il loggiato esterno.
Si termina nel 1633 con la riedificazione della chiesa.
Nel corso dei secoli, il fabbricato dell'ospedale subisce diverse modifiche.
Viene più volte ampliato e rimaneggiato in base alle esigenze dei tempi e al sostegno dei benefattori.
Nel catasto dei fabbricati, risalente al 1881, risulta composto di quattro piani con settantasette vani.
Di esso conosciamo alcuni lembi degli esterni attraverso alcune foto d'epoca, mentre la planimetria è documentata nell'ultima mappa catastale dello Stato Pontificio.
Nel suo insieme, la struttura ottocentesca rimane quella di fine Cinquecento, epoca dei grandi lavori di rifacimento, terminati nel 1633.
Due corsie di degenza nominate infermerie, una per le donne e l'altra per gli uomini, costituiscono la parte essenziale dell'ospedale, con una trentina di letti.
Quella maschile è ampia e luminosa mentre quella femminile si trova in condizioni precarie.
La situazione perdura fino al 1779 quando si decide la ristrutturazione.
Una singolare richiesta del vescovo Consalvi ci rivela la condizione delle ricoverate di quel tempo. Bisogna fornirle di camiciotti, si raccomandava il monsignore, affinchè non siano viste nude dai medici e soprattutto dai giovani assistenti.
Le due infermerie rimangono tali per lungo tempo e solo agli inizi dell'Ottocento si sente l'esigenza di isolare i feriti e le persone affette da febbri putride e maligne. Pochi anni dopo nasce anche il reparto dedicato ai convalescenti. Sopra il loggiato, nel secolo XVII, erano state ricavate tre stanze per accogliere sacerdoti, passeggeri ed altri galantuomini infermi.
In fondo ad una di queste infermerie c'è il vuotatoio, una stanza priva di finestre dove si vuotano gli escrementi; vicino la stanza del cappellano, presente notte e giorno per dare i sacramenti ai moribondi, che venivano vegliati dall'ospitaliere o da un suo familiare.
L'urgenza è garantita non dal medico di guardia ma soltanto dal sacerdote.
Quando nel 1536 il giovane vescovo Cosimo Gheri giunge a Fano rimane turbato dai vizi e disordini che trova radicati nella società fanese, divisa e sconvolta da antiche fazioni, causa di tante discordie che nessun inviato pontificio era riuscito a sedare.
Tra i gravi disordini che affliggono Fano c'è anche quello dei piccoli Spedali amministrati da diverse confraternite, le quali ne sperperano le rendite a danno dei poveri.
Quando il vescovo ne prende coscienza, è risoluto nel toglierli da quelle mani disoneste.
Da tante piccole istituzioni di carità, vuole ricavarne soltanto due, entrambe sotto la sua tutela o quella della comunità.
Le risorse, dunque, sarebbero state concentrate verso l'ospedale di San Michele (doveva accogliere soltanto i bambini bastardi) e quello di Santa Croce.
Non rosea è la situazione del Santa Croce, costretto ad avere un bilancio sempre in passivo per le molte incombenze verso gli ammalati che sono sempre tanti. Le risorse sono sempre insufficienti.
Bisogna poi tener presente che nei castelli del contado ci sono una decina di ospedali.
In realtà sono miseri ospizi per pellegrini poveri del paese, con un numero complessivo di una trentina di letti.
In due di essi "meno praticati viene concessa meramente la coperta a” passeggeri poveri".
In questi piccoli ospedali, come scrive in una relazione il vescovo diocesano, "giungono pellegrini infermi o alle volte poveri del paese e si curano fino allo stato immune da pericolo e poi si fanno trasportare sopra cavalcature o carri ove sono ospedali soliti a ricevere poveri infermi.
L’unica struttura sanitaria idonea a ricoverare questi poveri in tutto il territorio fanese è, dunque, il Santa Croce.
Il 2 luglio del 1537 lo aveva stabilito, con approvazione della Santa Sede, il decreto del vescovo Cosimo Gheri: ordinavit hospitale Santae Crucis similiter in futurum modum et habitationem et utilitatem pauperum Christi infirmorum.
È proprio da quel momento che la funzione del nosocomio riceve un compito ben chiaro: ricoverare i poveri infermi.
Solo nei secoli successivi si disporranno precise regole per la tipologia dei ricoverati e per l'assistenza ai ricoverati, anche se l'aspetto spirituale rimarrà sempre fondamentale.
I REGOLAMENTI DEL VECCHIO OSPEDALE
Una città abitata prevalentemente da poveri, governata da un ristretto numero di nobili, dove lo stato di mendico e di vagabondo spesso diventa una ineluttabile necessità.
In questo contesto non è cosa semplice la gestione dell'ospedale, rivolto prevalentemente verso questa fascia di popolazione più disgraziata, considerando poi quanto frequenti siano in questi anni le carestie e le guerre, portatrici di povertà e malattia.
Se poi si tiene conto che gran parte del governo della pia istituzione si regge sulla carità, disfunzioni, mancanze, criticità varie, sono all'ordine del giorno.
Spesso i poveri ammalati, in attesa di ricovero, sono costretti ad attendere a lungo sotto il loggiato dell'ospedale o davanti alle chiese.
Fin dal 1610, come risulta da una visita pastorale, il vescovo Lapi ordina che i pellegrini siano accolti dai custodi dell'ospedale e non sia loro permesso vagari per civitatem.
Soprattutto non debbano soffrire e siano provvisti delle cose necessarie ed opportune. In corsia, co-
Tutte queste motivazioni rendono necessarie delle regole per il corretto funzionamento della pia istituzione.
Nella metà del Settecento il vescovo Giacomo Beni approva e rende pubbliche regole molto dettagliate.
Si inizia con le mansioni dell’Ospedaliere, figura chiave di tutta l’istituzione caritativa.
Il buon servizio dell’Ospedale degli infermi dipende in massima parte dalla buona condotta di questo dipendente.
Una accurata indagine della durata di almeno due mesi, sulla vita e costumi del candidato, dovrà quindi precedere la sua elezione.
Requisiti essenziali sono: vita lodevole assenza di procedimenti giudiziari a carico privo di debiti, non dedito agli alcolici, di retta coscienza, timorato di Dio, dedito alla pietà.
Fondamentale che abbia una famiglia di buona fama con una moglie incline a servire gli infermi e senza figlie, almeno di età pericolosa.
Egli infatti dovrà vivere con la propria famiglia in un appartamento all'interno dell'ospedale.
Prima di entrare in servizio riceverà in consegna mobili e suppellettili inventariate; di tutto dovrà avere massima cura e risponderne ai superiori.
Servire i poveri con carità, aiutarli con pazienza in ogni necessità, in particolare nel farli mangiare e attendere con scrupolo alle prescrizioni dei signori medici e chirurghi, saranno le incombenze più importanti.
Dovrà essere pronto notte e giorno all'assistenza. Se qualcuno degli infermi dovesse aggravarsi durante la notte, dovrà recarsi col lume dal primo cappellano per avvisarlo.
Non dovrà prendere alcuna iniziativa circa il ricovero dell'infermo.
Assegnerà il letto solo con l'ordine dei medici e del priore. Se il malato poi si troverà già sotto il loggiato esposto all’aria, lo farà entrare perchè non prenda freddo.
Se invece si troverà ferito o pericolato, dovrà assegnare subito il letto, pena il licenziamento dall'incarico.
Mettendo a letto il povero infermo, avrà cura di raccogliere li panni, spogliandolo davanti a testimoni che possano documentare l'eventuale possesso di denaro, da consegnare poi al ministro o al cappellano, panni che, in caso di morte, diventano oggetto di eredità.
Dopo averlo munito di biancheria pulita, costituita da cappa e camicia, riporrà i suoi vestiti nella stanza adibita a guardaroba, e di tutto ciò ne dovrà rispondere ai priori.
Suo compito sarà anche quello di far rassettare di tutto punto le infermerie al mattino, avanti che si levi il sole; di far lavare i vasi degli escrementi e farli riporre al loro posto accanto ai letti, affinchè in tempo di visite mediche le infermerie siano espurgate dal fetore.
Sarà suo compito controllare che vengano rifatti ogni mattina i letti, controllando la corretta conservazione della biancheria della quale dovrà renderne conto a fine anno.
Sarà suo impegno inoltre far rappezzare i lenzuoli dalle donne di casa.
Quando giungeranno i signori Medici li dovrà servire con ogni rispetto e attenzione, accompagnandoli in corsia, letto per letto e annotando le relative prescrizioni da mettere subito in pratica.
Non dovrà mai prendere ne domandare denari ad alcuno.
Nella corsia maschile non dovrà essere alcuna sorta di donna, se non moglie, figlia o sorella dell'infermo e solo per breve tempo. Se poi qualche donna, con nessuna relazione di parentela, volesse parlare con l'infermo, dovrà essere accompagnata o dal cappellano o dall'ospedaliere, cercando che la dimora sia in breve.
Uomini poco onesti non dovranno proprio entrare in ospedale, specie quando vi siano feriti, perché il malintenzionato potrebbe portare a termine il delitto.
Stesso trattamento dovrà essere riservato agli uomini che vogliano accedere nella infermeria femminile, se non parenti, facendo massima attenzione alle persone che non diano buon esempio. Sarà inoltre vietato a persone esterne entrare in cucina per chiacchierare, vigilando, inoltre, con quella carità ed economia dovute, di non consumare fuori di proposito il fuoco, da utilizzarsi solo per il servizio dei poveri.
Sarà sua incombenza che sia cucinato con pulizia il mangiare dei poveri, ai quali non permetterà di donare vino, pane o altro e che dopo il pranzo e la cena siano accuratamente lavate tutte le scodelle e puliti i rami destinati a cuocere il cibo.
Sarà sua premura vietare cibi e medicamenti dall'esterno che non siano prescritti dai professori.
Dovrà inoltre controllare che i convalescenti e gli infermi stiano nei loro letti e che dopo l'Ave Maria, nessuno vada alle finestre.
Quando sarà l'ora di pranzo e di cena, egli si dovrà trovare pronto alla credenza dove si prepara il mangiare, portando le tavolette ai letti degli ammalati perché tutti ricevano il cibo nel proprio letto.
Provvederà a serrare tutte le porte e le finestre, compresa l'infermeria degli uomini. In caso di mancanza e per eventuali disordini ne risponderà di persona.
Nei mesi dell’inverno dovrà essere puntuale nello scaldare il letto a quegli infermi che ne avranno bisogno, avendo riguardo a non abbruciare lenzuola e coperte. Si raccomanda di compiere queste incombenze, sempre con carità e amore.
Dovrà, inoltre, osservare puntualmente quello che sia di necessità agli infermi in particolare ritirare nella spezieria i medicamenti da distribuire ad ogni letto. Saranno annotati tutti i farmaci distribuiti nei giorni di ricovero e registrati, al momento della dimissione, in apposito registro.
Ma la questione che sta maggiormente a cuore ai priori della confraternita, ribadita in modo quasi os-
L'ospedaliere dovrà infatti vigilare che nessuno muoia senza sacramenti e senza l'assistenza del cappellano. Un negozio di tanta importanza non può essere disatteso, pena il licenziamento dal servizio.
A quanti avranno ricevuto l'estrema unzione dovrà tenere acceso un Lume perché chi vede possa pregare per il buon passaggio della loro anima. Dovrà inoltre garantire, con tanta carità, l'assistenza continua al moribondo in quel punto estremo.
Dopo l'eventuale morte dell'infermo, sarà sempre cura dell'ospedaliere toglierlo dal letto e, avvolto con lenzuola, portarlo in chiesa sotto il controllo del cappellano. La sepoltura dei deceduti, in media sei al mese, avviene nella cripta della chiesa. In prevalenza i decessi in ospedale sono causati da apoplessia e da ferite da arma.
Non può esigere denaro alcuno dai parenti per l'assistenza praticata, nè si approprierà di cappa e camicia, dovendo questi indumenti restare a benefico dell'opera pia.
Avviserà inoltre del decesso i signori priori, perché facciano le dovute ricerche se siano stati amministrati i sacramenti e se l'infermo sia stato assistito nell’agonia con cura e carità.
Dovrà inoltre testimoniare quale dei cappellani sia stato presente al decesso e verificare se i panni del defunto e le altre robbe siano state debitamente conservate.
Poiché l'ospedaliere svolge anche le funzioni di battiluto, sarà tenuto a portare la croce nelle processioni, ad avvisare i confratelli per le congregazioni che si tengono durante l'anno ed a distribuire la carità sotto le logge.
La filza di incombenze spettanti all'ospedaliere termina con un forte e sintetico richiamo: eseguire sempre gli ordini in tutte le sue parti, puntuale e ubbidiente esecutore di tutto ciò che verrà comandato dai priori e dalla congregazione. Del suo operato prima ne renderà conto a Dio, poi alla Confraternita.
La successiva figura, presa in esame nei regolamenti vescovili, è quella dell'amministratore detto anche Ministro.
Egli è il fedele custode di tutte le rendite dell'opera pia e di quanto maneggia. Deve però renderne sempre conto ai priori e, a fine anno, ai due revisori eletti dalla congregazione.
Tutto dovrà essere diligentemente annotato nel libro dell'amministrazione.
Sarà inoltre suo compito registrare ogni capitolo ricevuto in consegna all'inizio del mandato insieme all'inventario completo in cui saranno descritte botti, tinacci e vasi di cantina con la rispettiva tenuta.
Le spese correnti, dopo il consenso dei superiori e con bolletta del referendario, verranno sempre registrate a parte.
Non potrà vendere o comprare alcunché, né pattuire il prezzo del grano, olio, vino, biade e legumi. Non potrà nemmeno dare in affitto case senza permesso dei superiori, né fare contratti con il fattore o con i lavoranti nelle possessioni ai quali non potrà dare né grano, prestare denari, ne prendere rega-
Procurerà rinviare sollecitamente alle proprie case i contadini che portano il grano nei magazzini dell'ospedale affinchè non perdano tempo prezioso.
Senza autorizzazione dei governatori non introdurrà in cantina persone di alcuna sorta per mangiare o bere.
Quanto al ricavato dalle vendite di grano, vino e altro, esso verrà subito consegnato al signor Depositario, pena l'esclusione dal servizio.
Avrà cura dei vestiti e quant'altro ciascun infermo porterà con sé al momento in cui viene messo a letto.
Conserverà inoltre la cera vecchia e nuova, da utilizzare per il servizio dei defunti e della chiesa.
Vigilerà infine senza strepito sul servizio dell'ospedaliere, in particolare sul comportamento verso gli ammalati e sul trattamento terapeutico loro riservato.
Gli ordinamenti ospedalieri del 1758 terminano con le incombenze dei Cappellani, religiosi costretti a vivere all'interno dell'ospedale in modo quasi claustrale.
In primo luogo viene loro ordinata la costante ricerca di ricoverati che vogliano confessarsi e comunicarsi.
Appena il malato giunge nel letto sarà loro cura servirlo con amore e affetto, poi confessarlo e, se può attendere il mattino successivo, comunicarlo al fine di fortificarlo a soffrire il travaglio del male.
Quando si porterà la comunione, per accompagnare il Santissimo, si darà il segno con la campana.
Se poi vi sarà qualche infermo così crudo, tanto da non voler fare ciò per la salute dell'anima e del corpo, dovranno riferirlo ai priori per gli opportuni provvedimenti.
Si raccomanda di vigilare e di non perdere di vista i moribondi in quel punto estremo.
Massima attenzione dovrà essere rivolta alle donne che si recano nell’infermeria, accesso consentito solo per pura necessità.
Se uno dei cappellani dovesse sortire dall'ospedale è necessario avvertire i superiori in modo tale che l'istituto non resti senza sacerdote.
Se poi dovesse pernottare fuori, dovrà averne licenza. Massima cura dovranno riservare all'abbigliamento, portando sempre la zimarra del luogo pio o la veste talare.
Sarà inoltre proibito al sacerdote di fermarsi a "discorrere" nelle infermerie, specie quella delle donne.
Se poi giungerà in corsia qualche ferito, dovrà esortarlo alla pace con chi l'ha offeso e notificare questa riconciliazione.
Alla Curia laicale non sarà permesso procedere ad esami, ricognizioni di corpi o altri atti giudiziari, senza il permesso dei superiori ecclesiastici.
Il cappellano anziano dovrà tenere il libro dei morti, in cui riporterà il luogo di sepoltura, il nome, cognome, patria di origine e qualità della malattia, con la diagnosi dei signori professori.
In questo libro dovrà essere specificato il luogo di sepoltura, se in chiesa o nel cimitero.
Loro compito sarà anche quello di tenere l'inventario della chiesa e il numero di messe celebrate per i morti.
Agli eredi del defunto spetta il pagamento di quattro grossi per il funerale, ricompensa da dividere tra di loro.
Saranno inoltre custodi dei panni e delle robbe dei ricoverati, facendo attenzione che le cose appartenute ai defunti rimangano in possesso della pia istituzione.
Cinque saranno le messe da celebrarsi ogni settimana in chiesa, mentre nelle feste comandate le funzioni religiose si celebreranno nella cappella interna. Ciò permetterà la partecipazione dei ricoverati.
Con il solito suono di campana, ogni sabato sera sarà loro compito recitare in chiesa le litanie della Vergine.
Dovranno infine accertarsi che gli usci siano sempre serrati giorno e notte e, la sera dopo cena, uno di essi dovrà accompagnare l'ospedaliere nella consueta visita agli ammalati.
Gli infermi che rientrano nella tipologia dei ricoverati nell'ospedale fanese sono quelli affetti da febbre, da piaghe e da tutti gli altri mali non contagiosi.
Questi pazienti debbono possedere due requisiti fondamentali: non avere altro modo per farsi curare e prevedere, per quanto possibile, la guarigione in tempi rapidi, trattandosi di patologia acuta.
Se presentano questi connotati, saranno messi a letto e curati dai signori medici, fino al momento del risanamento.
I signori Governatori provvederanno poi alla dimissione.
Nessuno dei superiori, medici compresi, potrà ricoverare infermi di malattia contagiosa, ai quali è fatto divieto di accedere nell'ospedale.
Sono: i leprosi, i tisici, gli infraciosati, i rognosi di rogna maligna, gli ulcerati di piaghe serpeggianti, ed altri simili che possano essere fonte di contagio.
Esclusi dal ricovero saranno anche gli infermi incurabili: gli ettici, gli infermi di cancro invecchiato, di flusso epatico, di sciatica, di podagra, quelli pieni di doglie nelle giunture, i pazzi, i lunatici, quelli che hanno scrofole e carboni maligni, gli infermi d'erpeti e di male detto volgarmente di San Lazzaro o fuoco di S. Antonio; cioè tutti quei mali giudicati, in coscienza dai signori professori, incurabili o contagiosi.
Se poi uno dei ricoverati, durante la degenza, dovesse manifestare uno dei sopradetti mali, verrà subito dimesso.
Anche i signori Governatori sono chiamati a vigilare ed esaminare ricoverati che dovessero presentare segni di malattia infettiva, in quanto, si ribadisce ancora una volta, codesto ospedale è stato fondato per curare solo infermità di breve periodo e non contagiose.
EPILOGO DELL'OSPEDALE DI CARITÀ
Un esposto al prefetto della Sacra Congregazione dei vescovi, cardial Della Genga, da parte del priore della Confraternita Santa Croce, il conte avvocato Antonio Giacomini, costituisce un interessante documento per valutare lo stato dell'ospedale fanese nella prima metà dell'Ottocento, anni in cui lo Stato Pontificio si avvia al tramonto.
Nella lettera, scritta dall'avvocato fanese nel settembre 1859, vengono esposti i disordini che regnano all'interno del Santa Croce, dietro ai quali c'è anche il comportamento scorretto del vescovo diocesano Filippo Vespasiani.
Il conte Giacomini, già protagonista nelle travagliate vicende storiche di questo secolo, dall'occupazione napoleonica ai movimenti liberali, non teme ormai il giudizio dei superiori ecclesiastici.
Alle autorità pontificie, infatti, riferisce puntigliosamente i gravi disordini radicati in quella pia istituzione, come già correva voce in tutta la città. L'elenco è lungo. Si inizia dai minori: i letti sono privi di cuscino; le lenzuola talmente corte da non coprire lo stramazzo; mancano piatti e bicchieri; le corsie di degenza sono riscaldate con caldani di carbonella; il guardaroba è piccolo e indecente, con accesso dalla corsia delle donne; manca la stanza di lavoro per la guardarobiera, costretta a utilizzare, per il proprio lavoro, la corsia femminile.
Poi la nota più dolente: il mancato controllo delle spese di gestione.
L'amministratore della pia istituzione, infatti, gode della più completa libertà nelle compravendite non essendo soggetto ad alcun controllo.
Chiude l'elenco la mancanza di disciplina da parte del personale sanitario.
Si tratta della reiterata consuetudine a dare cibo e medicinali anche a persone non ricoverate.
Proprio per rafforzare questo fatto, porta alcuni dati esplicativi: il 30 aprile scorso i vettovagliati esterni costituivano un terzo dei ricoverati, che complessivamente raggiungevano il numero di trentaquattro.
Un terzo quindi delle spese quotidiane erano rivolte a persone non ricoverate. Per evitare in città fastidiosi cicaleggi, che avrebbero ancor di più inciso sul buon nome dell'opera pia, il nobile fanese motiva le sue dimissioni con problemi di salute.
Nel 1925 il vecchio fabbricato verrà ceduto al Comune, mentre la chiesa annessa, già da tempo inofficiata, sarà venduta al duca di Montevecchio. Per non avere nessun carattere storico e artistico, così si scrive nella relazione della Soprintendenza, questo luogo sacro verrà adibito a magazzino.
Poi, dopo una parziale demolizione del vecchio ospedale fatiscente, nel 1930, saranno i bombardamenti aerei del 1944 ad atterrarlo, insieme alla chiesa accanto.
Di tutto il complesso rimarrà in piedi soltanto la torre.
LE TRAVAGLIATE VICENDE PER IL NUOVO OSPEDALE
La Congregazione di Carità, istituzione che aveva sottratto la gestione del S. Croce alla omonima confraternita, fin dalle sue origini, in particolare nelle menti più aperte, inizia a coltivare il disegno di una nuova e più decente sistemazione dell'ospedale.
Ma sono anni molto difficili, quelli del periodo post unitario.
Sul vecchio ospedale Cesare Selvelli scrive che:
Andare all'ospedale, è per i fanesi il pensiero più pauroso [...]. Quel vecchio ospedale dà una sensazione paurosa e caratteristica di ospizio antico, temuto ed umiliante. L'entrata è la prima impressione melanconica, per quanto pittorica in quel porticato del XVI secolo a colonne prismatiche di arenaria gialla e ad archivolti di cotto di cui resta breve traccia.
Aggiungi poi la strada che in quel punto è aduggiata dal fianco incompleto del vanvitelliano palazzo Montevecchio che ripara il mezzogiorno.
Nel piano superiore i letti sono allineati in due corsie maggiori ed in altre minori tristissime.
I servizi medici e chirurgici sono messi in locali forzati per adattarsi e adattare. Gli ambulatori funzionano entro locali ribelli. La farmacia, infine, deperisce distaccata in un bottegone d'angolo a pianoterra, dove la policroma teoria di barattoli in ceramica del Fornaci, buon vasaro fanese del secolo passato, assiste al principio della fine di antiche scansie tarlate.
Se a queste parole si aggiungono poi quelle scritte nella relazione d'inchiesta di Antonio Mosconi, il quadro si presenta in tutta la sua gravità.
Nel documento si parla di: Vecchio fabbricato, insufficiente, assolutamente inadeguato alle moderne esigenze igienico-
Per una scala angusta e pericolosa si accede a sale scarsamente aerate e illuminate, con il pavimento di mattoni. Mancano le stanze di isolamento per malati infetti, locali per bagni, cortili per passeggio dei convalescenti.
Il servizio di lavanderia è fatto nel lavatoio pubblico comunale.
L’ambulatorio medico-
il servizio interno di guardaroba, dispensa, distribuzione di medicinali e vigilanza delle corsie, è disimpegnato da quattro suore.
Sonvi poi tre infermieri e due infermiere laiche.
Per mancanza di alloggio, non havvi di notte una assistenza medica permanente.
Si giunge così alla prima tappa tanto attesa: la posa della prima pietra del fabbricato che avviene il 12 luglio 1914.
Dopo lunghi mesi di lavoro, nell'autunno del 1917 il nuovo fabbricato ospedaliero Santa Croce volge al termine.
L'edificio può contenere cento ricoverati.
È fatto da sette padiglioni, quattro dei quali costituiscono il blocco centrale.
Legati tra loro da gallerie di comunicazione, sono i due delle infermerie, quello dell'entrata con uffici, ambulatori e blocco operatorio, l'appartamento delle suore.
Questo gruppo fondamentale e centrale di padiglioni è a due piani: il piano terra è riservato ai malati di medicina, mentre il piano superiore a quelli di chirurgia.
Rimangono i tre padiglioni staccati: la stazione di disinfezione con lavanderia, il piccolo complesso dei servizi religiosi e necroscopici e il reparto infettivi con i laboratori scientifici.
Il bel piazzale d'ingresso, dominato dalla facciata del padiglione centrale, ha, nel pianoterra, alcuni uffici, qualche bagno e gli ambulatori.
Nel piano superiore vi sono altri uffici, il guardaroba generale, e il reparto delle sale operatorie corrispondente alla veranda che si protende sopra il portico d'entrata.
Questa parte dell'edificio, oggetto di forti critiche, non ha solo scopo decorativo, ma anche protettivo in quanto spazio coperto, dove i malati possono discendere dai rotabili.
Tra tutti è l'unico padiglione ad avere una decorazione architettonica che il progettista aveva giustificato con motivi estetici per l'ingresso.
Il piccolo padiglione delle suore e delle cucine, sulla sinistra per chi entra, è collocato nel punto più comodo per il duplice servizio.
I due padiglioni delle infermerie -
Ci sono anche 12 stanze dedicate ai ricoverati a pagamento.
La chirurgia possiede inoltre una sala con dieci posti letto per i militari.
Dietro il gruppo fondamentale, si eleva il padiglione riservato ai malati infettivi, isolato in fondo al recinto.
Possiede stanze per 18 letti, distinti in due piani per i due sessi.
Nell'edificio, con entrata indipendente, vi sono istallati il laboratorio chimico e quello batteriologico.
Tutti gli ambienti vengono riscaldati con termosifoni, mentre il giardino e i viali sono illuminati da lampade a petrolio e ad energia elettrica.
Il nuovo complesso viene inaugurato con solennità il 5 settembre 1920, dopo sei anni di lavori, con un costo complessivo di 1.200.000 lire e dopo averlo dotato delle più moderne apparecchiature.
In questo processo di rinnovamento dal vecchio al nuovo ospedale fondamentale è stato il contributo delle suore.
Sono le Ancelle della Carità di Brescia, un ordine di suore capace e preparato. Un primo nucleo era giunto a Fano il 20 giugno 1910, chiamato a gestire l'Ospizio Marino, istituito dalla Congregazione di Carità per curare fanciulli rachitici e scrofolosi.
Per meriti acquisiti sul campo, il 9 giugno del 1915, vengono chiamate anche al S. Croce, in sostituzione di un altro ordine di religiose che lasciava l'ospedale per contrasti con il personale sanitario. Ricevono il governo di ogni settore ospedaliero: sale operatorie, cucine, ambulatori, guardaroba, farmacia, corsie, lavanderia, giardini, uffici amministrativi. Iniziano il servizio in numero di quindici, ma, poco dopo, il numero si raddoppia. Sotto la loro guida si formano intere generazioni di infermieri con i quali instaurano un rapporto di amicizia e collaborazione. Nel 1926 si amplia per ospitare i cosiddetti cronici.
Negli anni quaranta sorgono piccoli padiglioni per servizi ed ambulatori.
Nel 1956, si costruiscono i nuovi reparti destinati all'otorinolaringoiatria e all'ostetricia, oculistica e il centro provinciale per la lotta contro il Reumatismo e le Cardiopatie.
Nel successivo decennio è la volta dell'ortopedia, della pediatria e della urologia. Poco più tardi viene aperta la medicina geriatrica e la rianimazione.
L'ospedale fanese in pochi anni diventa un ospedale a valenza provinciale. Gli edifici progettati nei primi decenni del secolo, non sono più sufficienti.
Vengono aggiunte nuove costruzioni che nulla hanno in comune con le linee architettoniche dei padiglioni già esistenti.
Dopo alcune riforme nasce prima l’Azienda Sanitaria per trasformarsi poi in Azienda Sanitaria Regionale da cui partirà una nuova storia, già tracciata anche se non ancora scritta.