GORIZIA Dall'Ospedale Santa Maria della Misericordia al San Vito dei FBF - Ospedali d'Italia

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GORIZIA Dall'Ospedale Santa Maria della Misericordia al San Vito dei FBF

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GORIZIA   VECCHIO                            GORIZIA  NUOVO

I FBF -Storia della provincia Lombardo Veneta di S. Ambrogio dell’Ordine Ospitaiero di San Giovanni di Dio
Libro I -1588-1687 – tomo VII il convento-ospedale di San vito di Gorizia Vol I – Gianfranco Radice Celestino Mapelli Edizioni FBF Milano 1978

Non proprio il primo, ma quello a essere considerato il primo ospedale funzionale di Gorizia venne fondato nel 1656 dall’ordine di San Giovanni di Dio, Fatebenefratelli o piuttosto austriacamente, Misericorditi, grazie all’elargizione di Vito Del Mestri, barone del Sacro Romano Impero, amministratore del Capitanato di Gradisca e iscritto tra i nobili patrizi degli Stati provinciali di Gorizia.  
Gorizia e il suo territorio, nel XVII secolo, facevano parte dell’impero asburgico. La città isontina, in pieno sviluppo, per la laboriosità della popolazione, le provvidenze austriache, la liberalizzazione del commercio con Venezia e i paesi transalpini, contava circa quattromila abitanti “ comunità  onestamente ricca “. L’assistenza dei poveri pellegrini o ammalati, era affidata all’« ospitale di S. Maria ».
Questo ospizio era fornito di dodici letti e distribuiva, ogni giorno, pane e vino ai mendicanti di passaggio. Scarse sono le notizie sull’assistenza ospitaliera, anche perché, all’origine, non fu necessaria un’istituzione organizzata, in quanto Gorizia, antico castello feudale, andò solo lentamente a costituirsi in borgo, paese e città, per i quali occorreva il nosocomio, pronto ogni momento a fornire aiuto.
Il bisogno di un secondo ospedale  per i meno abbienti si fece strada dopo la peste del 1623 e attecchì prima nel consenso di tutti i goriziani e poi nella disponibilità fattiva del nobile barone Gian Vito Del Mestri.
Le convinzioni religiose lo determinarono, a superare il verbalismo della carità per « fare la carità » e questa verso i malati poveri, i più bisognosi fra gli uomini, perché colpiti nei beni e nella salute, chiedendo la fondazione di un ospedale, trovando i gestori più qualificati e donando i mezzi materiali necessari.
Ottenuta la promessa di aprire a Gorizia un convento-ospedale, diede inizio alle pratiche burocratiche inoltrando una domanda ufficiale alla Deputazione Provinciale, corredandola con l’offerta di una dotazione di dodici mila fiorini.
Si aprì la discussione il 13 agosto 1634 e dopo oltre 20 anni di discussioni burocratiche il Del Mestri, il 18 novembre 1656, passò al primo atto pubblico per l’erezione della chiesa dell’ospedale, la posa della prima pietra di cui aveva ricevuto il 17 giugno 1656 autorizzazione dal Nunzio Apostolico a Vienna.
Il De Maestri aveva provveduto prima all’alloggio, o convento, per i frati ed assicurato loro il sostentamento quotidiano, perché le questue risultassero completamente disinteressate, servendo esclusivamente per il mantenimento dei ricoverati, di numero anche, che non disturbasse menomamente l’osservanza delle regole e quindi lasciato alla coscienza dei religiosi, e, in un secondo tempo, fece costruire la chiesa e, dopo di essa, l’ospedale, rispettando l’ordine dei due comandamenti supremi, prima Dio e poi gli uomini per amor di Dio.
Il nosocomio nuovo, dopo la posa della prima pietra della chiesa, cominciò a sorgere secondo le disposizioni del generoso fondatore e con le caratteristiche di tutti gli ospizi dei Fatebenefratelli.
La costruzione è a due piani, uno a terra ed uno superiore, con solai, camini e, soprattutto, un campaniletto chiuso da bifore, da dove si vedono due piccole campane, per regolare la giornata dei religiosi e dei loro assistiti e per avvertire la popolazione delle funzioni liturgiche, e sormontato dalla bandiera di metallo segnavento.
Il pianterreno era adibito, come negli altri edifici dei Fatebenefratelli, a convento ed alle esigenze dei ricoverati, quali la cucina, i depositi ed i servizi generali. Il piano superiore, per igiene, comodità e maggiore salubrità, era diviso tra le celle dei frati ed il padiglione degli ammalati.
Questo doveva essere particolarmente spazioso e areato: ci sono, infatti, otto finestre, munite di balconcino, e sopra otto oblò in corrispondenza, i quali assicuravano luce e ossigeno agli assistiti, che potevano arrivare ad una decina nel rispetto delle regole degli Ospitalieri di San Giovanni di Dio.
Essi applicarono con dedizione le norme « Dell’Hospitalità » praticate del loro grande Fondatore, incentrate nell’assistenza spirituale dei ricoverati, perché, con l’aiuto di Dio, potessero ricuperare la salute fisica; queste regole riguardavano l’accettazione, il collocamento in corsia, le cure mediche, gli orari, l’alimentazione, l’igiene, la dimissione, la eventuale sepoltura in caso di decesso e, soprattutto, la spiritualità dei degenti, i quali, a Gorizia, dallo schizzo dell’ospedale lasciato dal Marussig, e dal numero dei religiosi, dovevano essere sei o otto, accolti, come in tutti i conventi-ospedali di questo secolo, in letti monumentali, difesi da cortine e forniti di coperte dello stesso colore e ornati dal « melograno » dei Fatebenefratelli o dalle armi dei donatori, che, in questo caso, potrebbero essere state quelle di Del Mestri.
La coerenza dei Fatebenefratelli nella città isontina fu riconosciuta indirettamente nel resoconto della terribile epidemia del 1682, pubblicamente dall’imperatore austriaco ed, ampiamente, per un arco di settant’anni dai notabili friulani. Leopoldo I, successo, nel 1658, al padre Ferdinando III, il quale aveva promesso la protezione all’istituzione, dopo la costruzione del complesso ospitaliero e la prima esperienza della cittadinanza, inviò il diploma imperiale di  riconoscimento, che attuava la promessa paterna e affermava solennemente l’utilità del nuovo ospedale goriziano.
Una calamità dolorosissima, per Gorizia, fu la peste del 1682. Il morbo scoppiato a Graz e diffusosi nella Carinzia e nella Stiria, arrivò alle porte di Gorizia il18 di maggio 1682.
I magistrati goriziani, resi certi della peste solamente il 24 giugno, quando già l’epidemia si diffondeva, furono lenti nel prendere le misure opportune, osteggiati anche dalla popolazione (mi viene in mente quanto la storia si sia ripetuta ai nostri giorni con la Covid), restia a convincersi del male, mentre i nobili ed i ricchi lasciavano la città per scampare al flagello, lasciando i cittadini alle cure dei religiosi, gesuiti, cappuccini, carmelitani e, soprattutto, per loro missione, fatebenefratelli.
Si fecero giungere, da Venezia, due medici e due becchini « si iniziò la costruzione di uno speciale lazzaretto per accogliere», morti i colpiti, si emanarono norme di « quarantena » e di proibizione di raduni in luoghi chiusi, le stesse messe si celebrarono all’aperto, si fissarono, soprattutto, dei responsabili o « esposti » al contagio in ogni quartiere  della città, per visitare le famiglie e far ricoverare colpiti e sospetti.
Gli ospitalieri di San Giovanni di Dio si prodigarono per gli appestati, portando la loro assistenza nelle case, aiutati dal diuturno contatto con gli ammalati e dall’arrivo da Bologna, forse per questa circostanza, di un loro chirurgo, fra Sebastiano Ruesta, milanese, che, durante il noviziato nel convento-ospedale di Santa Maria Aracoeli potrebbe aver appreso gli antidoti e le cure per questi malati da quelli, che i Fatebenefratelli apprestarono durante la terribile pestilenza del 1630. La comunità di San Vito era composta da cinque religiosi:  tutti professi da molti anni e, quindi, sperimentati ai dolori ed ai conforti dei fratelli.
La paralisi delle attività economiche indusse, il 6 agosto 1682, l’arcivescovo, card. Giovanni Delfino a indire una questua generale per la diocesi e l’affidò ai Fatebenefratelli.
Ultimo sforzo ed efficace fu la quarantena generale imposta alla popolazione cittadina dal 25 novembre al 2 gennaio 1683, quando la peste cominciò a ridursi sino a scomparire ai primi di febbraio.
Il passaggio delle grandi calamità lascia dietro di sé desolazione e miseria nei superstiti e, nello stesso tempo, stimolo di ripresa per dimenticare i ricordi tristi.
La speranza dei poveri si volse alla ripresa dei fratelli della Misericordia, che, non solo, riaprirono il loro ospizio, ma trovandosi di fronte al numero aumentato dei bisognosi, dopo l’epidemia nefasta, furono moralmente obbligati e fecero, quindi, ogni sforzo per cercare altro spazio per accogliere questi infelici.
Tredici anni dopo, infatti, grazie ad oculate economie e a prudenti contratti, senza mai venir meno ai già documentati disinteresse ed assistenza senza discriminazione, il 22 febbraio 1696, «... (si) addiveniva all’acquisto del pezzo di casa posta in confine delle altre case, il che consentiva il bramato aumento dei locali dell’Istituto » e con esso ad allargare gli spazi della Carità.
La fondazione ben avvenuta e il disinteresse totale degli Ospitalieri di San Giovanni di Dio ridusse al minimo, come numero e come valore, i contrasti, che accompagnano le istituzioni nuove e, solitamente, originati da motivi di eredità, i quali, per il convento-ospedale di San Vito, grazie alla sufficiente dotazione di Del Mestri, non esistevano.
Le controversie dei primi trent’anni si riducono, infatti, a due: il timore, che la chiesa del nosocomio potesse nuocere all’economia parrocchiale, e il dubbio, che alcuni beni, ceduti in donazione dal barone al suo ospizio, potessero essere di diritto feudale, abolito dall’imperatore austriaco.

dal quotidiano online "il piccolo" di Trieste, pubblicato il 23 settembre 2018. Si ringrazia la redazione per la disponibilità alla pubblicazione.

https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2018/09/23/news/ospedale-convento-e-l-edicola-mariana-dei-misericorditi-nell-antica-piazzutta-1.17280326

(1) Nel 1777, Giuseppe II d’Asburgo decretò la soppressione della gran parte degli ordini religiosi nell’Impero d’Austria, riconoscendo però l’utilità sociale dei Fatebenefratelli che a Gorizia rimasero attivi con l’ospedale.  In una relazione del 1874 si legge […]  non è provveduta la separazione dei gravi ed infermi dai convalescenti, non è provveduto per la divisione rispetto all’indole ed al carattere delle malattie, non è provveduto per una stanza di operazioni chirurgiche a secondo dei progressi della scienza. L’ospedale dei misericorditi dà ricovero anche a mentecatti, ma chi ha gettato una volta sola lo sguardo in quel locali, non ritorna più per raccapriccio. Non si parli poi di cura che qui difetta di tutto ciò che è richiesto all’uopo. L’ospedale non è per essi che è un tristissimo luogo di reclusione per liberare le famiglie dal loro peso e per renderli innocui. All’opposto, al piano di sotto, notevolmente più ampio e solo in parte occupato dai 100 cronici ed invalidi della casa di riposo, lo spazio era esuberante ma mancavano i denari per restaurare ed adattare a dormitori e camerate ampi e desolanti stanzoni. Le infermerie erano sprovviste di lavabo ed in tutto l’ospedale non esisteva che un solo termometro per graduare gli infermi. Una decina di sciupati bisturi, delle lancette per salassi e una pinzetta arrugginita era tutto lì strumento disponibile. Ogni malata poteva a pieno piacimento procurarsi dal di fuori qualsiasi medicamento. Non si era scrupolosi nell’osservanza dell’orario delle visite mediche per non dire delle desolanti condizioni nelle quali si trovavano i cessi e le fogne. In tutto l’ospedale non esisteva neppure uno stanzino uso bagni. Ciononostante, le pazze venivano anche, in seguito visitate in fetenti canili; in pratica era un luogo dove una cura razionale era impossibile e dove le povere alienate di mente trovavano un affettuoso reclusorio e nulla di più.


 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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