POLLENZA Ospedale civile Umberto I - Ospedali d'Italia

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POLLENZA Ospedale civile Umberto I

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Il contenuto della scheda è tratto integralmente dal testo: L’ospedale civile di Pollenza dalle origini ai giorni nostri – Pietro Manzi – 1960

L'ospedale ebbe la sua primissima dimora nella casa attigua al campanile, poiché quella aderente alla sagrestia era data in affitto.  In sostanza, non più di due ambienti, che nel corso del '600 assolsero come poterono al ricovero degli ammalati acuti del Comune.  L'ospedale, secondo diversi antichi inventari, e più precisamente quello del 9 agosto 1634, possedeva: - lenzuola buoni n. 34, laceri e rotti n. 10 paia; - coperte di-verse n. 16; pagliericci n. 22.
Era gestito dalla Compagnia del Suffragio che, pur avendo accresciuti i suoi capitali con molti legati di pii testatori, con i continui storni di fondi per cose estranee alla beneficenza ed all'assistenza, dalla mania del lusso nelle cose sacre, nelle cerimonie religiose, lo portarono al rimanere pressoché deserto. E l'immobile, trascurato nei necessari periodici lavori di ordinaria manutenzione, decadde a tal punto che faceva ribrezzo entrarvi. E che dire del personale? Pagato male, o non pagato addirittura, finì anch'esso con l'allontanarsi, talché l'ospedale passò nelle mani dei becchini, l'ultimo dei quali, si narra, era cencioso, fumido, ributtante. Quel luogo, quindi, che doveva essere di cura, materiato di conforto e di speranza per riconquistare la salute e per tornare alla vita, finì col diventare un posto di raccolta di poveri moribondi, ove finivano anticipatamente i loro giorni e dal quale partivano per l'ultima dimora. Che cosa potevano sperare gli infermi da un becchino, per sua natura mercenario, ed il cui mestiere porta a seppellire i propri simili e non a ridare la salute e la vita? Sulla soglia dell'Ottocento ad esso non rimaneva di meglio che chiudere i battenti. Il Vescovo  nella visita pastorale fatta  nel 1777, lo trovò in pessimo stato e, pertanto, dispose che fosse restaurato, imbiancato e provvi-sto del necessario, per accogliere almeno quattro malati, i quali, per consentire il ricovero di altri abbisognevoli di cure, dovevano permanervi per il tempo strettamente necessario. Aggiunse il prelato che «i vagi ed i pellegrini non vi dovevano essere accolti, se non erano realmente infermi, e fuori dell'ospedale non si dovevano fare elemosine neppure agli ammalati poveri, sia uomini che donne, senza il consenso del Vescovo. L'opera dell'ospedale si dimostrò particolarmente utile e meritoria, durante la grande influenza che divampò nell'aprile del 1765. Parimenti preziosa fu l'opera nell'altra epidemia di  “febbre putrida”  che infierì nel 1767. Causa del continuo lento declino dell'Ospedale furono le calamità, che, fra il 1750 ed il 1800, afflissero il Comune. Da ricordare la carestia del biennio 1763-1764, l'altra del 1766-1767, il terremoto del 28 luglio 1799, e, infine, la grave carestia del 1800.  Nel 1791, sopravvenne un provvedimento pontificio di Papa Pio VI: la Confraternita del Suffragio, che amministrava i beni dell'ospedale, venne tassata. Cosi, depauperato ancora, l'ospedale decadde tanto che, qualche anno dopo, gli amministratori potevano scrivere, che “in quei tempi si conservava appena il nome di Spedale, perché negletto e quasi del tutto abbandonato.  Nel 1797 Bonaparte instaurò il nuovo regime e le opere pie passarono al Demanio fino al 1799 quando venne ripristinato lo stato pontificio. La situazione non era florida tanto che il 6 dicembre 1808, il Prefetto diede impulso alla Congregazione di Carità, alla quale, con decreto 21 dicembre 1807, era stata demandata l'amministrazione degli stabilimenti ed istituti riguardanti oggetti di pubblica beneficenza.  Egli, presa cognizione delle condizioni dei vari enti di beneficenza, tra cui l'ospedale, al quale era preposta la Confraternita del Suffragio, e del Monte frumentario,  osservò con suo sconforto che il locale è molto cattivo, ed in gran decadenza, e quel che importa grandemente è mancante di ogni risorsa ed incapace ad alimentare i malati. Quindi  stabilì di sussidiarlo con diverse disposizioni atte a ricostituirne i beni.  Consigliò inoltre di occupare un braccio del convento dei PP. Agostiniani, che, in forza delle leggi sulla soppressione degli ordini monastici, sarebbe venuto a rendersi libero. In quei locali l'ospedale avrebbe trovato una sede più sana, più ampia, più comoda alle sue esigenze funzionali. Per effetto della deliberazione prefettizia, inviata dal podestà al Priore del convento il 23 gennaio 1809, venne stabilito che l'ospedale dovevasi trasferire nel piano inferiore, e a tal fine, nel termine di cinque giorni, i locali dovevansi rendere liberi per poter iniziare i lavori di adattamento necessari.  Nei primi anni dell'800 era primario medico il Dr. Vincenzo Gagliardini, il quale, nel 1809 compilò una relazione sanitaria, che fu trasmessa all'autorità prefettizia di Macerata.  Di tale relazione ne stralciamo qualche periodo. « Le malattie endemiche, o sieno locali, sono lo Scorbuto, le Convulsioni, e la Podagra. Le Malattie sono di sua natura metà acute; incominciano queste nel Novembre, e durano fino a tutto Aprile, avendo il carattere infiammatorio con sol differenza però, che nei Mesi di Novembre, e Dicembre sono più frequenti la Tosse, i Reumatismi acuti, e le Angine infiammatorie, nei Mesi poi consecutivi di Gennaro fino a tutto Aprile infuriano generalmente le Polmonie infiammatorie, le quali non cedono, che al sesto, o settimo salasso. Nei mesi di Estate finalmente fino a tutto Autunno le malattie costruzzionali sono le Febri biliose, spesso i vari Tisici maligni, scarse le Collere, meno le Dissenterie, rare le Terzane. Di quanti reparti disponeva l'ospedale e con quali criteri venivano ricoverati gli infermi all'atto della restaurazione del Governo Pontificio?
Lo stabilimento disponeva di due reparti nettamente distinti: nel primo venivano ricoverati gli ammalati, nel secondo gli invalidi. Al primo erano ammessi i poveri, ed anche gli abbienti col pagamento da parte di questi ultimi di un adeguato compenso; al secondo, vecchi in stato di povertà, che, per imperfezioni fisiche o malattie croniche e per mancanza di una casa o di congiunti, non trovavano altrove la necessaria assistenza. A questi veniva corrisposto un sussidio giornaliero. Le dette condizioni richieste per l'ammissione dovevano essere comprovate da certificato medico, e, per lo stato di miseria, da un attestato del parroco.  Quanto fosse modesto e deficitario il servizio di assistenza del personale subalterno, e per numero e per qualità, che denunciava pure chiaramente la mancanza assoluta di prescrizioni disciplinari e di servizio, lo dimostra il fatto che il 25 luglio 1814 un ricoverato, improvvisamente impazzito, poté liberamente togliersi la vita gettandosi nel pozzo sito nel cortile dell'ospedale, senza che alcuno presente glielo impedisse.  Durante l'estate del 1817 si accese e si diffuse rapidamente una grave epidemia di tifo in tutto il territorio del Comune tanto che fu necessario ricorrere all’erezione  di un separato Ospedale per gli infermi contagiati dal male. L'ospedale, allestito fuori dell'abitato, funzionò a pieno regime da giugno a tutto il 30 novembre
Nell'estate del 1837 divampò in Macerata ed in altri centri urbani viciniori una grande epidemia di colera asiatico, che minacciava da vicino di invadere Monte Milone.   Molto opportunamente si ordinò di tenere pronto il «casino», una volta Ranaldi, presso l'abbazia di Rambona, per installarvi una casa di osservazione. Contemporaneamente vennero requisiti una congrua quantità di letti completi ai possidenti del Comune, per attrezzare la casa medesima e l'ospedale dei colerosi, che dovevansi impiantare conformemente alle istruzioni della deputazione sanitaria.  Varie altre predisposizioni furono adottate, come: 1) il reclutamento di quattordici individui, da adibire come guardie per la vigilanza sanitaria; mezzi e personale per il trasporto e l'assistenza; divieto ai forestieri di entrare nel territorio comunale; 2) collocamento delle guardie alle porte della città; scambio della posta sulla strada romana, ecc.  Tutto questo apparato fu tenuto in potenza fino a tutto dicembre di quell'anno, ossia anche dopo che la circolare del Delegato Apostolico, in data 14 ottobre, annunciò la cessazione dell'epidemia.   Una seconda epidemia di colera scoppiò nel 1855. Nel generale panico si diede vita ad un altro ospedale; esso fu impiantato in una casa privata, fuori dell'abitato, in luogo isolato, facilmente accessibile alle lettighe e ai carri, lontano dagli occhi dei civili, per poter effettuare non osservati il trasporto dei colerosi e dei cadaveri.  Gli effetti letterecci, mobili, utensili ed attrezzi vari furono acquistati dal Comune e donati da privati benefattori. La biancheria fu provveduta, per interessamento della Priora delle Dame della Carità di S. Vincenzo.  L'ospedale Civile concorse cedendo effetti letterecci per n. 13 posti letto, gli utensili di cucina, materiali ed oggetti igienico-sanitari e mobili vari.
Il progetto d'impianto prevedeva un'attrezzatura per dodici posti letto, un camerino per il medico e i deputati, una camera per gli assistenti e gli infermieri, un camerino per l'inserviente alla cucina o cuciniere, una camera per uso di cucina, un camerino per il deposito dei combustibili, altro per i suffumigi, altro per il deposito di biancheria ed altro, e, infine, un ultimo locale per il deposito delle robe da lavarsi.  Il medesimo progetto, per quanto riguarda il personale, prevedeva un capo infermiere o infermiera, responsabile delle prescrizioni del medico e dei deputati, e di servizio agli infermi nelle loro necessità; un uomo e tre donne quali sotto infermieri; un cuciniere ed un aiuto di cucina.  Si elaborò un regolamento per il funzionamento interno dell'ospedale, composto di 12 articoli, da servire come guida per il personale addetto.  Ai fini d'una più completa organizzazione e per un più perfetto funzionamento si assunsero due ispettori per sorvegliare accuratamente la condotta di ogni inserviente e a far eseguire diligentemente il trasporto dei malati, e qualunque altra operazione necessaria. L'ospedale dei Cholerosi di Monte Milone  cominciò a funzionare regolarmente il 13 giugno, accogliendo i primi tre contagiati, e funzionò ininterrottamente fino al 26 settembre 1855.  Qual’era, sul finire del 1859,  l'attrezzatura? Pochi modesti mobili, invero, arredavano la Segreteria, «l'Ufficio del Professore », le Camere delle infermiere, le corsie.  Dall'arredamento delle corsie e dall'elenco della biancheria, si può dedurre che l'ospedale disponeva di una capacità ricettizia complessiva di diciotto posti letto. Infatti è chiaramente indicativa la cifra delle 36 lenzuola, mentre l'espressione di « paglioni con paglia diciotto » esprime tutta la povertà, se i posti letto erano formati di materiale del genere.
Altro elemento utile a darci l'idea di quelle che erano le corsie ci è fornito dalla voce « Crocifissi di ottone cinque », corrispondenti evidentemente alle cinque camere di ricovero di cui il complesso dell'ospedale era formato: camere che, data la opinabile limitata ampiezza e cubatura, non dovevano proprio conferire troppo confortevole ambiente a quella decina di infermi destinati ad ospitare.
Non basta!... A questo quadro di miseria e di squallore si aggiungeva - nota agghiacciante e funerea la veste di cotone negro per uso del Chirurgo!  Il piccolo stabilimento, comunque, fra il 1850 ed il 1860, potevasi considerare ancora sufficiente nella sua capacità ambientale alle esigenze dei tempi e della popolazione non numerosa.
L'ospedale tirava innanzi più che altro per forza d'inerzia, vivacchiava cioè, e, nel suo incerto andare, non si notava alcun segno di vita nuova. Il corpo malato aveva bisogno di ossigeno, di una buona dose di energia vitale, di radicali provvedimenti, pena la morte! Il 1860 segnò l'inizio della nuova era per il nostro Paese.  Dal Sud la ventata rivoluzionaria delle Camicie Rosse, risalendo la Penisola portò, trionfante, l'Eroe dei Due Mondi, all'incontro di Teano, che suggellò, nel nome di Vittorio Emanuele, l'azione dell'Esercito regolare e quella dei rivoluzionari, e, perciò, l'unione di tutti gli Italiani nel Regno d'Italia. Il nuovo regime portò, con nuove leggi, nuovi e più progrediti ordinamenti.
Il 25 settembre 1860 venne soppressa la Compagnia del Buon Gesù e fu istituita la Congregazione di Carità. Ad essa venne affidata l'amministrazione dell'Ospedale Civile, del Monte di Pietà, del Monte Frumentario, dell'Opera Pia Fabiani-Narducci per i cronici ed invalidi poveri. Nel 1862 Monte Milone cangiò il nome in Pollenza.
La Congregazione di Carità dotò l'ospedale di uno Statuto organico, approvato con R. Decreto 11 aprile 1880, e di un Regolamento di Amministrazione, approvato dalla Deputazione Provinciale il 16 luglio 1885.   Il nuovo Statuto dell'ospedale definiva il suo scopo nei punti seguenti: ricevere, assistere e curare malati poveri; sovvenire malati poveri a domicilio; elargire qualche sussidio dotale alle zitelle povere.  Dal testo dello Statuto medesimo risulta: 1) che il suo patrimonio era costituito per la maggior parte da canoni, censi, crediti appartenenti alla soppressa Confraternita del Suffragio e della Carità e all'Istituto Elemosiniere [...]; 2) che l'amministrazione era devoluta alla Congregazione di Carità [...];  3) che gli impiegati della Congregazione di Carità dovevano prestare servizio anche per l'ospedale, che avrebbe contribuito al loro stipendio in proporzione delle sue rendite;  4) erano addetti al servizio sanitario i medici e chirurgi condotti di Pollenza, assistiti da due inservienti;  5) che a vigilare sul suo andamento economico e per l'osservanza delle norme statutarie doveva provvedere uno dei membri della Congregazione medesima. La nuova Congregazione di Carità aveva un arduo compito davanti a sé: la rinascita dell'Ospedale, per la cui realizzazione ne-cessitava accrescere le entrate, migliorare l'ordinamento interno, invogliare medici e chirurghi di chiaro valore ad aspirarvi.
Quale era il personale, ed il relativo trattamento economico, al principio dell'Ottocento?
Esso comprendeva:  un economo, per la provvista di tutto quanto occorreva alla vita dell'istituto, con scudi 16;  due ospedalieri (un uomo ed una donna), per l'assistenza dei ricoverati rispettivamente maschi e femmine, per scudi complessivi 26; un cassiere, per l'esazione delle rendite, con scudi 10;  un segretario, addetto alla deputazione per la stesura e custodia di tutti gli atti relativi, con scudi 12.  Completava detto personale un assistente spirituale.   Nel 1862 iniziò la collaborazione delle Suore di carità ed i loro compiti erano: a) visitare gli infermi alla mattina per vedere se nella notte sono stati assistiti dall'infermiere secondo il bisogno; b) assistere alla visita dei Professori perché sia ad una ora determinata e procurare che le ordinazioni vengano eseguite nei modi, e tempi prescritti dai medesimi;  c) attendere per quanto sia possibile che i moribondi siano assistiti dal Cappellano, affinché non muoiano senza Sagramenti; d) sorvegliare che gli infermi abbiano la quantità del vitto, che vien loro prescritto; e) tenere in consegna le biancherie per farle riattare e cucire quando occorrerà il bisogno; f) qualora dalla Congregazione si facesse provvista di farmaci ne curerà la consegna e farà le somministrazioni ai malati, secondo le prescrizioni del Professore curante; g) si presterà ne casi di urgenza a salassare i malati ed assistere l'infermiere nell'applicazione di mignatte, vescicanti od empiastri.
Uno dei primi atti con cui ebbe inizio presso l'ospedale l'opera delle Suore fu il servizio di farmacia, le cui provviste in medicinali venivano fatte da tempo presso i locali farmacisti.
Una  Suora,  sulla fine dell'anno, si recò a Fabriano, per conseguire l'abilitazione all'esercizio della farmacia.
Fra il 1850 ed il 1860  la situazione è stata sempre pressoché uguale.
Il personale sanitario era formato da un primo medico condotto, da un medico comprimario e da un chirurgo.  Oltre i sanitari, il Comune assumeva da tempo un flebotomo.
Fra le due guerre, la gestione passò all'Ente Comunale di Assistenza, istituito in ogni comune, in virtù della Legge 3 giugno 1937, N. 847.
Il 30 settembre 1938 fu promulgato il R. Decreto N. 1631, con il quale vennero fissate nuove norme per l'ordinamento dei servizi sanitari e del personale sanitario degli ospedali . Per effetto di tali norme, l'ospedale di Pollenza, non raggiungendo la media minima giornaliera di trenta degenze utili alla classifica di Ospedale di 3" categoria (Art. 2 e 5), venne, con Decreto del Prefetto di Macerata, declassato ad Infermeria Civile. E non poteva essere altrimenti, dal momento che, a quell'epoca, l'ospedale disponeva di sedici posti letto (8 nel reparto medicina ed 8 nel reparto chirurgia), suscettibili di aumento fino al massimo di venti, e che, date le disagiatissime condizioni economiche e finanziarie, non si era potuto far luogo a lavori di ampliamento.
D'altra parte la mancanza di un chirurgo nel personale sanitario bastava da sola a dare il carattere d'infermeria al vecchio luogo di cura, potendo, per tale ragione, accogliere solo « malati non aventi bisogno di cure specializzate e di interventi chirurgici di particolare importanza ». La declassazione era la naturale conseguenza di una imperdonabile incuria verso una istituzione non mai abbastanza amata e tutelata!  La guerra se pure non arrecò danni diretti allo stabilimento  e durante la duplice invasione degli inglesi ed i polacchi che occuparono per loro esigenze l'ospedale  ebbe riflessi dannosi ed inevitabili sull'ospedale.  Tesi tutti gli sforzi della Nazione al fine supremo della vittoria e della salvezza, tutto il resto, fra il 1940 ed il 1945, era stato trascurato. Nel 1946, quindi, l'ospedale, che già prima della guerra lasciava molto a desiderare in quanto a igiene, organizzazione e funzionamento, rimasto com'era decisamente arretrato al confronto di stabilimenti similari, specie nel settore delle attrezzature e degli strumentari, nel frattempo straordinariamente progrediti, richiedeva urgente ed indilazionabile, per non veder compromessa la sua stessa esistenza, un totale rinnovamento ed aggiornamento.
In quali pietose condizioni era ridotto l'ospedale lo dice la relazione degli amministratori: «Senza peccare di esagerazione si può affermare che l'ospedale conservava, nella sua struttura e nel suo andamento, lo stesso aspetto di quando, per la prima volta, venivano adattate a corsie le vecchie celle conventuali degli Agostiniani; era venuta ad esaurirsi lentamente anche la vita dell'Ospedale, che veniva classificato “ infermeria “, ed, in effetti, non era altro che uno squallido rifugio per indigenti, che, in malattie acute o croniche, a stento lo preferivano alle cadenti loro abitazioni, forse perché ricevevano senza pagamento, due pasti giornalieri, oltre l'assidua assistenza sanitaria, che solo l'abnegazione di un medico condotto e di una Suora della Carità sa prestare nelle più sfavorevoli condizioni di ambiente e con i minimi mezzi.  Senza soffermarsi in ulteriori dettagli, si può concludere che i locali e l'attrezzatura dell'Ospedale avevano perduto molti dei requisiti igienici sanitari e ospedalieri.
Rinnovazione richiedeva il vetusto Ospedale, ma anche un ampliamento, per adeguarlo alla popolazione cresciuta per effetto delle leggi demografiche del ventennio, ed alle progredite esigenze dell'uomo moderno, qualunque sia la sua condizione, che mal si adatta al modesto viver d'un tempo. Molto saggiamente ed opportunamente, quindi, ai primi mesi del 1946, il Consiglio di Amministrazione dell'E.C.A., decise  di chiudere l'Ospedale per il tempo strettamente necessario, e iniziare i lavori, che dovevano essere di restauro e di rinnovazione della parte vecchia, e di ampliamento, se possibile, e, comunque di ammodernamento, per l'armamentario, i servizi, ecc.  Dieci mesi durarono i lavori, ed il 10 agosto 1947 l'Ospedale potette riaprire i battenti agli infermi. L'Ospedale non presenta più quell'aspetto melanconico e ripugnante del passato, ma è accogliente e confortevole: alle corsie si sono succedute ampie ed ariose camere separate e vasti corridoi, primordiali impianti igienici moderne camere da bagno, al nero ed antiquato arredamento bianchi lettini sgabelli e comodini, alle fumose stufe di terracotta un completo impianto di termosifoni in una parola il vecchio ha ceduto il posto al nuovo, che corrisponde alle attuali esigenze dell'edilizia ospedaliera, dell'igiene e della tecnica sanitaria.
In tal modo l'Ospedale ha perduto completamente la fisionomia di infermeria, e, senza pretese di grande casa di cura, ha assunto l'aspetto di una ridente casa di salute, ove chiunque può trovare l'assistenza.
Malgrado, però, il radicale rinnovamento realizzato dopo i nefasti anni della guerra, l'acquisto di moderne attrezzature e la messa in opera di impianti igienico-sanitari, e l'adozione del nuovo razionale Regolamento, i risultati non furono pari all'aspettativa, come può ben rilevarsi anche da una sommaria rapida consultazione del registro dei ricoveri. L'indice di questi, infatti, si è sempre mantenuto basso, non superando mai, nel decennio 1947-1957, il numero di 80-90 degenze annue. Grave, quindi, fu la delusione degli amministratori dell' E.C.A., delle Autorità Comunali e Provinciali, ed anche degli oblatori e dei cittadini, che, con tanta generosità, avevano risposto all'appello per la rinascita dell'Ospedale. Bisognava andare alla ricerca delle cause che erano diverse e di varia natura; ma quella che balzava tosto agli occhi era la mancanza in seno al personale sanitario di un chirurgo operatore. La Consulenza e l'opera di un primario, sia pure di chiara fama, ma non facilmente reperibile per ragioni di distanza o di occupazioni, specie in casi d'urgenza, che in chirurgia sono frequentissimi, non era sufficiente a far fronte agli imperiosi bisogni del nosocomio. Tale deficitaria situazione, che vedeva risolto solo per metà il problema dell'assistenza sanitaria, portava, naturalmente, all'allontanamento di tutti gli ammalati chirurgici, ossia grosso modo il 50% dei ricoverabili, i quali andavano a cercare nei prossimi Ospedali  ovvero in cliniche private, quelle cure, che sapevano di non trovare in Pollenza.
L'Ospedale, quindi rimesso a nuovo  si presentava come un'autovettura di gran marca, che, uscita, dopo un sinistro, rifatta negli organi vitali da un'officina di riparazioni, e restaurata nella carrozzeria con fiammante riverniciatura,  marciava, come si dice volgarmente,  “con una ruota a terra”. L'E.C.A. non aveva i mezzi sufficienti, e pertanto trattandosi della soluzione d'un problema d'interesse generale, fece appello al Comune.  Il 7 dicembre 1955 il Consiglio Comunale esaminò e discusse la richiesta del Comitato dell'E.C.A., intesa ad ottenere il contributo economico al fine di coprire la spesa necessaria all'assunzione del chirurgo.  Due anni e mezzo trascorsero per l'espletamento delle pratiche di concorso, durante i quali l'ospedale trascinò una vita anemica, con disagio per la popolazione. Per dare un'idea dello stato di lenta consumazione di questo grande malato, diremo che, nel primo semestre del 1959 non si raggiunse neppure la punta di cento degenze, con una media mensile di 15 ricoverati appena.
Il 5 giugno del 1959, finalmente, l'E.C.A. poteva partecipare al Dr. Giuseppe Manzi, che la Prefettura di Macerata aveva vistata e resa esecutiva la di lui nomina a Chirurgo di ruolo dell'Ospedale.
Furono acquistati un cistoscopio (Original Wolf Endoskop) della Richard Wolf G. M. B. H. Knittlingen Wurtt,  la lampada scialitica a cinque fari, dalle Officine Chirurgiche Italiane già Jannetti di Torino.
Nei primi mesi del 1960 è stato fatto l'acquisto di due nuovi mezzi, che, prontamente messi in opera, oltre che ammodernare l'attrezzatura operatoria, consentono al chirurgo di lavorare più speditamente, in un regime di maggiore sicurezza. E' stato, infatti, introdotto un aspiratore elettrico F.A.S.E.T., mentre l'antiquato sistema di narcosi è stato sostituito da un modernissimo apparecchio per anestesia a tre gas (ossigeno, protossido di azoto, anidrite carbonica - doppio gorgogliatore per etere tipo « Boyle » circuito chiuso con canistro per calce sodata) marca « Zeus »
Altra importante miglioria è stata operata con l'acquisto di un Ureometro Dall'Aira e della attrezzatura di laboratorio relativa, che permette ora di eseguire, nel già attrezzato laboratorio, gli esami di routine più comuni, quali quello dell'urina, azotemia, glicemia, emocromocitometrico, con evidente vantaggio di tempo e di denaro. Prima d'ora, infatti, detti esami venivano eseguiti presso il Laboratorio Provinciale d'Igiene, con l'impiego di 2-3 giorni per conoscerne l'esito. Se dall'alba è dato fare un felice prognostico per il giorno, possiamo senz'altro farne uno lusinghiero per l'Ospedale, il cui principio di rinascita è decisamente roseo. Lasciamo, a tal'uopo, parlare le cifre!  I ricoverati nell'anno 1959, hanno avuto  un incremento  del 50% circa. I ricoverati del reparto chirurgia sono  quasi quintuplicati.
Sotto il personale impulso del Dr. Manzi, oltre il progettato disegno della costruzione di un'intera ala nuova dell'Ospedale, dimostratasi indispensabile per dare ricovero a tutti quelli che lo chiedono, senza l'assillo di una preoccupante insufficienza, l'ampliamento della sala operatoria e la creazione del servizio trasfusionale, alla data del 1° gennaio 1960, erano già in allestimento: - la sala gessi; - il Gabinetto cistoscopico; - il Gabinetto fisioterapico.  In questo nuovo clima è stato celebrato il S. Natale del 1959: con un rito religioso, nella cappella, e con il tradizionale albero. In tale occasione, la famiglia ospedaliera si è raccolta tutta intorno agli infermi ed ai cronici, distribuendo i doni offerti da benefattori e da pubblici esercenti non solo, ma facendo sentire ad essi tutto il calore insolito di una grande premura e di un sentito affetto, validissimi coadiuvanti alla riconquista della salute,  espressione schietta della nuova aria che spira fra quelle corsie. (non sono riuscito a trovare i riferimenti di casa editrice e autore cui chiedere la condivisione dei contenuti).


 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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