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Tratto integralmente da: MEDIAEVAL SOPHIA 23 (gennaio-
Maria Antonietta Russo, Fonti documentarie e testimonianze manoscritte per lo studio di due ospedali di Sciacca (secoli XIV-
Fondato per volontà testamentaria dal valenzano Ferrerio Ferreri; la costruzione iniziò nel 1417. Diversa la tipologia dei destinatari, chiaramente indicati da Rocco Pirri che definisce l’ospedale «Xenodochium nunc incurabilium» e, dopo di lui, da Bonaventura Sanfilippo che, allo stesso modo, utilizza l’avverbio nunc: «nunc autem Xenodochium incurabilium» e dal notaio Andrea Randazzo che intitola, nel suo Saccae Archiviorum Compendium, la parte dedicata all’ospedale «De Xenodochio Incurabilium», facendo chiaro riferimento agli infermi affetti da malattie contagiose e veneree. La diffusione di malattie ulcerose e scabbiose, considerate incurabili, l’incremento alla fine del Quattrocento di casi di sifilide giustificarono l’insorgere di questa tipologia di ospedali. Bisogna, comunque, tenere presente che nelle volontà del fondatore non si faceva menzione a questa specifica tipologia di malati e ciò fa pensare, anche in virtù dell’avverbio nunc utilizzato dagli autori del XVII e XVIII secolo, che l’ospedale avesse modificato l’originaria finalità. Quel che è certo è che agli inizi del XX secolo manteneva tali funzioni, tanto che Scaturro nella sua Storia della città di Sciacca spiega che l’ospedale «è anche detto degli Incurabili perché accoglie gli infermi, sino a 30, di malattie croniche ed ostinate»; al contempo, comunque, ospita a pagamento forestieri che si rechino a Sciacca per i bagni termali.
Le disposizioni del testatore, però, non furono agevolmente adempiute e, dopo settant’anni, l’ospedale venne meno alla sua vocazione iniziale. Nel 1487, l’erede della baronia, Giovanna, pronipote di Serena, sostenne di avere il diritto di patronato sulla chiesa di Santa Maria della Misericordia fuori le mura di Sciacca, nominò un beneficiale della chiesa senza fare alcun riferimento all’ospedale e usurpò il territorio di Favara. Questo portò «danno et ruina» all’ospedale; furono usurpati gli introiti dell’ente assistenziale e venne meno l’ospitalità e la cura degli infermi che furono trasferiti nel vicino ospedale di San Giuliano. Nel 1555, però, sua Divina Maestà deliberò volersi spogliare di detto beneficio, et restituirlo alli poviri infirmi a cui fu legato. Fu mandato, allora, a risolvere la questione il giurato Pietro Perollo che, «dolendusi che per molti anni con scrupolo di sua conscientia s’havia perciputo l’introiti di detto territorio, postposita l’hospitalità», riconobbe che il feudo di Favara spettasse all’ospedale «per cura, et governo d’infirmi, iuxta mentem testatoris» e ottenne che il beneficiale rinunciasse al beneficio. I malati poterono finalmente tornare nell’ospedale.
Nei capitoli relativi alla restituzione di Favara stipulati tra il vescovo di Mazara e Pietro Perollo si precisava che il feudo spettasse all’ospedale, che i giurati avrebbero selezionato tre sacerdoti di chiara fama e comunicato i nominativi al vescovo e, dopo la sua morte, al barone, il quale avrebbe dovuto, entro un mese, sceglierne uno come cappellano della cappella dell’ospedale. Il cappellano avrebbe avuto l’obbligo di celebrare quattro messe a settimana per l’anima di Ferrerio e dei suoi successori; il suo salario, fissato dalle 4 alle 6 onze annue, si sarebbe dovuto pagare dagli introiti di Favara. Si sottolineava che il cappellano non si sarebbe mai dovuto intendere come beneficiale e che suo dovere sarebbe stato quello di visitare gli infermi dell’ospedale avendone cura. Il vescovo o il barone avrebbero dovuto nominare un rettore e un altro i giurati di Sciacca; i due rettori «di bona vita, et fama, gentilhomini et personi honorati […] coniuntim, et non divisim» si sarebbero dovuti occupare dell’amministrazione e del governo dell’ospedale facendo in modo che «non sia defraudato», tutto a vantaggio «delli poviri infirmi» che da quel momento sarebbero potuti ritornare nell’ospedale della Misericordia. I rettori avrebbero dovuto rendere conto del loro operato alla fine del triennio. Il ruolo del fondatore veniva ulteriormente ribadito nei capitoli in cui si puntualizzava che se l’ospedale si fosse dovuto abbattere per ampliarlo o «ruinarsi», questo si sarebbe dovuto trasferire nella struttura già iniziata presso la porta San Calogero che avrebbe dovuto assumerne l’intitolazione di ospedale della Misericordia.Allo stesso modo si salvaguardavano le esigenze degli infermi specificando che il denaro ricavato dalle rendite del territorio di Favara e dai lasciti o dalle elemosine sarebbe dovuto servire alla substentatione et goberno di detto hospitale, et infirmi di quello, et mai in nessun tempo li frutti di detto territorio, et altri ut supra si possiano, ed debbiano convertere in altre opere spirituali, etiam pie, et piissime, né profani, né temporali, etiam per qualsivoglia causa sopraveniente, emergente, et necessaria, excetto allo governo, et substentatione preditti. Pietro Perollo, in qualità di procuratore rettore e governatore, seguì per cinque anni la ristrutturazione dell’ospedale e della cappella, provvedendo anche all’arredamento del nosocomio che fu fornito di letti, materassi, lenzuola, coperte, nonché delle stoviglie per la cucina e di tutto l’occorrente per la casa. Purtroppo alla sua morte, avvenuta nel 1560 e seguita a distanza di un anno da quella del vescovo, ricominciarono le controversie. Il barone Bernardino di Termini si rifiutò di accettare la rinunzia e nominò un nuovo beneficiale. La storia successiva dell’ospedale fu, dunque, caratterizzata da disaccordi e contese.
Nel 1927 entrò negli ospedali Civili Riuniti di Sciacca.