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Il contenuto della scheda è tratto integralmente dal testo: Il carro di fuoco -
Ringrazio l’Editore Tino Bino per l’autorizzazione all’uso dei contenuti riportati
Venne una donazione. Andrea Bordiga, cognato del medico condotto Carlo Cernuschi, ricco possidente illuminato e senza prole, donò testando 24.000 lire, perché in Iseo si organizzasse un ospedale destinato al ricovero gratuito dei poveri “ammalati di malattia acuta”.
Purtroppo la somma, messa a disposizione della Congregazione di Carità, restò inutilizzata. A muovere le acque arrivarono le negative esperienze accumulatesi durante le due grandi ondate epidemiche degli anni Trenta, affrontate, ancora e nonostante tutto, in perfetto stile medioevale: chiusura delle porte, istituzione della quarantena, blocco dei mercati e dell'attività di fabbrica, guardia armata delle abitazioni, reperimento d'un lazzaretto.
Iniziò in tono minore, il vaiolo del '33. Colpì, nel solo periodo tra il 3 settembre ed il 19 ottobre, un iseano su 25. Degli 82 casi, 7 ebbero esito infausto; l'ospedale fu sistemato in vicolo della Cerca, nella casa che davanti la canonica possedeva Camillo Zuccoli. Si trattò d'una blanda anticipazione dell'attesa pandemia colerica di tre anni dopo.
A render conto dei suoi effetti devastanti, basti l'elenco dei dati statistici conosciuti, eloquenti nella loro sommaria crudezza: un coleroso ogni 25 abitanti, 83 casi di cui 50 mortali, quindi un indice di letalità superiore a 60. Per almeno tre motivi quell'epidemia costituisce un nodo focale: due dei tre possidenti che vi morirono testarono a favore della Congregazione di Carità, perché istituisse un ospedale permanente.
L'amministrazione comunale ebbe i bilanci sconvolti ed in larga perdita quindi si era identificato un edificio adattabile alle necessità di un ospitale.
Sotto pressione dell'Imperial Regio Governo, la Deputazione comunale si mise alla ricerca di quello che sarebbe potuto divenire lazzaretto. Venne interpellato lo Zuccoli, perché cedendo alla sua "natural filantropia", nuovamente predisponesse la sua casa della Cerca.
Ma la sua risposta tardava a venire. Si accettò così immediatamente l'offerta di Gianmaria Bonardi perché si usasse gratuitamente degli spazi disponibili in San Francesco. Quindi nel 1836 l'ex convento divenne ricovero coatto per i colerosi, dopo che tutti gli inquilini erano stati costretti ad andarsene. Per prima attrezzatura restavano soltanto dallo «sciolto ospital provvisorio de' vajolosi» otto pagliericci di una sola piazza «con i cavalletti» e 2 coperte di lana, che ovviamente furono rapidamente integrati. «Letti ed accessori che potessero occorrere, lenzuoli, coperte di lana, fanelle di lana, panni di tela, camicie, pezzi di tela cerata, recipienti di terra e vasi pel vomito, utensili da cucina, legna da fuoco», a tutto pensò il protagonista «dell'erezione dell'ospizio», l'agente comunale Tedeschi, che, per quanto «patito nel proprio fisico», teneva «conto delle molteplici spese [...] procurandone il possibile risparmio. Purtroppo "l'alacrità" superiore alle di lui forze personali» lo rese facile vittima del male combattuto.
Lo Specchio nominativo degli individui giacenti per malattia sospetta, e d'indole cholerosa consente di calcolare in 40 il numero approssimativo di coloro che, contemporaneamente, trovarono ricovero in San Francesco, assistiti dal medico Cernuschi, dai chirurghi Barboglio e Almeri, e dagli improvvisati infermieri Pietro Ridolfi ex oste, Giuseppe Violini «villico», Giovanni Brunacci, Lucia Viola vedova Ricetti «cucitrice ed ostessa», Camilla Viola Torcoli «cucitrice e venditrice di frutti».
Il culmine dell'epidemia venne raggiunto intorno alla metà di luglio, ma già il 7 la Deputazione aveva scritto al parroco: «Il suono della campana maggiore di questa Parrocchiale, che chiama il popolo al tempio o che indica lo scoprimento di qualche immagine mette in questi abitanti grande terrore. Quindi per evitare tutte le cause che potrebbero essere di fomite alla malattia dominante, si prega la di lei compiacenza Reverendo Signor Parroco di far sospendere tale lugubre suor [...] ». Così chi da San Francesco se ne andava verso il cimitero non ebbe più nemmeno l'accompagnamento dei tradizionali rintocchi.
Al finire di luglio l'epidemia andava spegnendosi. Il 31 da casa a mezzodì Cernuschi scrisse al Comune: «Sono stato questa mattina a visitare l'ospitale, e per servire 6 ammalati, tre dei quali in convalescenza, vi erano 5 infermieri: conviene adunque levarne almeno uno giacché gli ammalati sortono da se stessi dal letto... lo stato acuto è passato per tutti. Così credo spesa inutile la guardia fuori dalle porte del convento, che vi sono abbastanza guardie oculari sotto al portico [...] né credo che nessuno avrà la curiosità di ascendere le scale per vedere i cholerosi [...] ».
La profonda impressione che lasciò il colera riuscì finalmente a smuovere le acque.
Si formò una «Commissione dell'Erigendo Ospitale» che, trovando il monastero vuoto ed in abbandono, ne giudicò il prezzo conveniente, e considerando come ben avesse servito durante la crisi pandemica, lo acquistò. Non si può non citare una delle ragioni che motivarono la sua scelta: “ ha condizioni eccellenti di salubrità per essere isolato, al Labro del Lago, depurato dalla corrente settentrionale”.
I lavori di riattamento alla funzione ospedaliera non dovettero essere gran cosa, si ripetè il disegno determinatosi durante l'epidemia. Quando l'8 marzo 1841 l'ex convento aprì le porte al ricovero dei primi pazienti, non era altro che una fredda infermeria deposito, affidata alla saltuaria presenza del medico condotto, in cui vengono spedalizzati, separati per sesso in due stanzoni, acuti e cronici alla rinfusa, traumatizzati mischiati ad infettivi. Del tutto inesistente l'assistenza infermieristica, finché da Lovere non giunsero, sette anni dopo, le suore Figlie delle Sante Capitanio e Gerosa, assicurando una presenza continua nelle due corsie. E fu questo l'ospedale che sopportò le prove del colera del 1849 e soprattutto del '55.
In quell'anno maledetto la malattia colpì un iseano su 13, per un totale di 176 casi. I morti che seguirono furono tanti, troppi, addirittura 91.
Il San Francesco approntò un reparto infettivi di soli 10 letti, che non bastò. Ridivenne quindi appieno lazzaretto, luogo non di cura, ma stazione di deposito e di transito verso la sepoltura. In realtà, fu la cancellazione delle "inutili" pratiche di quarantena, in nome della trionfante mentalità mercantile, ad aggravare il disastro. Non fermare i mercati, non chiudere le filande, comportò l'aumento, in assoluto, della mortalità. E fu ancora questo l'ospedale che si gonfiò a dismisura, raggiungendo i 140 letti, nei giorni di guerra del '59, quando i feriti del non lontanissimo fronte vennero convogliati anche su Iseo.
In San Francesco lo spazio sembrava non mancare, così ben presto all'attività sanitaria si affiancò un'attività assistenziale, rappresentata da una sala-
Quel che mancava era il denaro, il capitale per poter ristrutturare l'edificio intero, poterlo piegare veramente alle esigenze di un moderno ospedale. E questo nonostante le donazioni che si susseguivano in modo sufficientemente regolare. Ulteriori benemerite eredità sembravano perdersi nell'ordinaria amministrazione, subendo salassi atroci nelle emergenze epidemiche e guerresche, senza riuscir mai ad accumularsi.
A risolvere le difficoltà di capitale, giunse però la positiva conclusione della lunga causa che aveva opposto le laiche amministrazioni iseane ai Fatebenefratelli.
Infatti, qualche anno appresso un ricco possidente iseano, don Ambrogio Cacciamatta, dono’ il proprio patrimonio perché venisse attivato e mantenuto un Ospitale per la cura degli uomini miserabili, oltrepassanti la pubertà, ammalati con febbre curabile. Il ricovero trovò sede al Vanzago, tenuta agricola tra Paratico e Capriolo. La sua direzione ed amministrazione furono demandate ai Fatebenefratelli. Entrò in funzione nel 1850.
Lo scarso successo dell'ospedale Cacciamatta al Vanzago, dovuto alla posizione decentrata e di difficile accesso, fecero ben presto nascere l'idea di trasferire ad Iseo il primo, fondendolo con il secondo.
Nel 1860 la Giunta municipale d'Iseo ne fece proposta verbale ai Fatebenefratelli che però posero quali condizioni l'esclusione dai ricoveri delle donne ed una serie d'articoli, che comportavano la pratica estromissione del Comune da qualsivoglia controllo e gestione anche patrimoniale, consegnata invece alla più completa autonomia dei subentranti Fatebenefratelli, e non se ne fece nulla.
Nel 1867 in seguito alle leggi 3 agosto 1862 sulle Opere Pie e 7 luglio 1866 sulla soppressione generale delle corporazioni religiose, comportanti la conversione in rendita pubblica dei beni stabili e l'incameramento dei patrimoni a favore del nuovo "Fondo per il Culto" un decreto reale riformò l'Amministrazione Cacciamatta, la sottrasse ai Fatebenefratelli e la consegnò ad una commissione di cinque membri, scelti nelle municipalità di Iseo, Timoline, Monticelli Brusati, Camignone, Nigoline.
Venne modificato lo statuto dell'ospedale, perché potesse assistere pazienti anche di sesso femminile e, dopo aver sollecitato il parere dei medici condotti della zona, lo si trasferì nel Civile di Iseo.
Nel 1882 i due enti raggiunsero un modello di convenzione definitivo, destinato a perpetuarsi per decenni. L'accordo col Cacciamatta rese necessari lavori d'ampliamento e di ristrutturazione del vetusto edificio di San Francesco, che vennero effettuati nel biennio 1884/1885.
Poi, nel 1964, l'aumentata richiesta d'interventi, degenze, servizi portò alla decisione d'affiancargli un moderno fabbricato, i cui lavori iniziarono nel 1967 e terminarono nell'aprile 1970. L'ospedale nuovo ha, per un verso, ucciso il vecchio, tanto lo sovrasta e lo nasconde e lo contraddice.